Leggende Informatiche: Olivetti -Programma 101 Capitolo secondo

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Capitolo secondo : La grande mistificazione

1 Il socio americano.

Anche se era a tutti noto che i nuovi padroni non erano precisamente innamorati della elettronica, nel laboratorio di Pregnana eravamo in curiosa attesa di quello che avrebbe potuto succedere. Infatti non era facile anche solo fare delle congetture, visto che nel passato molti contatti avviati con possibili partner europei ed americani si erano risolti con un nulla di fatto. I tedeschi della Siemens, come gli inglesi della ICT e i francesi della Bull, avevano tutto sommato risposto che l’unione di due debolezze difficilmente avrebbe creato una forza e che in ogni caso avrebbero preferito un partner americano.

L’incontro con la General Electric, che dal 1956 era anch’essa entrata nel campo dei calcolatori elettronici, per un gruppo che era assolutamente determinato a disfarsi della elettronica, fu quindi quasi obbligato. Va però precisato che tale determinazione non era mai stata esplicitamente o ufficialmente dichiarata nel corso delle trattative che avevano portato alla costituzione del gruppo di intervento; la sensazione che si andasse in quella direzione emerse direi quasi a livello umorale. Per giunta quando un nuovo management, non precisamente annoverabile tra i più fantasiosi, viene messo a capo di una società, e’ abbastanza ovvio attendersi come minimo un messaggio di cambiamento e non proprio nel senso di una audace proiezione verso il futuro.

anni ’60 Papa Paolo nella foto: Papa Paolo

La General Electric era un vero colosso, al terzo posto in America per numero di dipendenti e al quarto per fatturato. Il cervello della divisione informatica era a Phoenix in Arizona, dove ben 4000 ricercatori progettavano le linee di calcolatori di fascia più alta. Ma lo sforzo che la società aveva avviato in questo campo non aveva dato ancora risultati quantitativamente soddisfacenti: la quota di mercato era minima, dell’ordine del 2%, non solo rispetto al gigante IBM col 65% del mercato, ma anche rispetto agli altri concorrenti del settore, come Control Data, Sperry Rand, RCA. Era quindi logico attendersi che essa desiderasse annettersi quote di mercato attraverso delle acquisizioni, visto che le sue disponibilità finanziarie erano di tutto rispetto.

Un altro aspetto va ancora ricordato: la General Electric era stata una delle aziende che più aveva contribuito a creare il pensiero e la prassi della pianificazione strategica. Essa aveva già attuato negli anni 50 una struttura basata su cinque divisioni, dotate di larga autonomia, che spaziavano in tutti i settori più importanti dell’elettrotecnica, per arrivare agli impianti nucleari, alle turbine a gas, alle apparecchiature spaziali. Era quasi inevitabile che il gigante non potesse star fuori dal settore informatico, che sembrava sulla carta possedere tutti i quattro quarti dei requisiti richiesti per un brillante sviluppo futuro.

In conclusione la General Electric avviò trattative, sia in Francia con la Bull, che in Italia con la Olivetti, per una operazione che sembrava da manuale per un’azienda che voleva bruciare le tappe di una espansione a livello mondiale; anch’essa si accorgerà solo più tardi che tra la teoria e la pratica c’e’ di mezzo il mare.

L’annuncio dell’accordo con la General Electric venne diramato il 31 agosto del 1964 con uno scarno comunicato della direzione Olivetti, nel quale non si parlava affatto di cessione, ma semplicemente della costituzione di una società mista denominata “Olivetti-General Electric s.p.a. ” ovvero OGE, alla quale veniva conferita la divisione elettronica. Ma le trattative erano cominciate appena la nuova direzione fu insediata; alcuni dicono ancora prima, in gran segreto.

In un primo tempo all’interno della divisione pensammo più che ad una cessione a qualche forma di accordo paritetico. A pensare questo eravamo indotti dall’energica smentita della direzione Olivetti ad un volantino emesso dalle commissioni interne, nel quale si affermava che erano state prese le decisioni di: ” abbandonare l’attività’ elettronica e di ricerca; di mantenere, trasferendola ad Ivrea, l’attività’ del gruppo dell’ingegner Perotto, relativa alle piccole macchine “. ” Dichiarazioni assolutamente false ” tuonava la smentita, quasi con sdegno.

Un ulteriore rafforzamento delle nostre speranze derivava dall’atteggiamento fiducioso ed ottimista assunto da Roberto Olivetti, della cui buona fede non avevamo ragione di dubitare e che era sempre stato sincero difensore della elettronica. Egli vedeva nell’accordo con un colosso come la General Electric, con immensi laboratori di ricerca,  un modo, forse l’unico in quella situazione, di rilanciare l’elettronica e di ricavare un know-how che si sarebbe potuto riversare sull’intera Olivetti. Alla luce di quanto poi e’ successo, devo concludere che egli si ingannò oppure, più verosimilmente, che fu ingannato. Essendo Roberto, di tutta l’alta direzione Olivetti l’unico che ne capisse qualcosa di elettronica, coloro che avevano in mano la regia dell’operazione pensarono certamente che era preferibile non averlo contro, prospettandogli intenzioni molto più idilliache di quelle che l’accordo avrebbe poi fissato.

Ma la realtà vera di quanto si andava tramando emerse, almeno ai miei occhi, molto chiaramente nel viaggio a Phoenix che, con una delegazione di colleghi della divisione elettronica, facemmo alla fine di giugno del 1964.

Visitare l’Arizona nel mese di luglio, col caldo soffocante del deserto, non e’ per niente raccomandabile come gita turistica distensiva; ma certamente più opprimente fu il clima che improntò i colloqui con gli americani. Anche se le forme e i cerimoniali furono cordiali, molto chiare furono le espressioni di quasi assoluto disinteresse o addirittura di insofferenza per la ricerca fatta a Pregnana. Non essendo i nostri interlocutori ne’ diplomatici, ne’ avvocati, ma tecnici, essi senza troppi peli sulla lingua ci fecero capire che l’unico interesse era costituito dalla acquisizione di una base commerciale in Italia  per la distribuzione dei calcolatori progettati a Phoenix. Questa sensazione era poi rafforzata dal tipico atteggiamento americano di considerare pressoché inesistente il resto del mondo e in particolare di non attribuire all’Italia alcuna particolare credibilità al di fuori del design e di poche altre attività del tipo “genio e sregolatezza “.

Essendomi fatta questa convinzione, fui preso dai più funesti presagi sul destino della divisione elettronica in generale e della attività del mio gruppo in particolare. Io mi stavo infatti occupando effettivamente di piccole macchine e di unità di ingresso-uscita dei dati negli elaboratori, come lettori di caratteri ottici e magnetici, ossia di tutte quelle apparecchiature che potevano costituire un ponte tra la informatica dei grandi elaboratori e i tradizionali prodotti di Ivrea, però da qualche tempo mancava completamente un preciso indirizzo e nessuno si preoccupava di dirci che cosa dovevamo fare. D’altra parte era ai miei occhi chiaro che alla General Electric nulla importava delle piccole macchine.

Cercai ripetutamente di parlarne con Roberto, ma lo trovai poco disposto a condividere il mio pessimismo. Ebbi l’impressione che egli fosse rimasto abbagliato dalla potenza degli americani, potenza che essi non evitarono certo di esibire, facendoci visitare i loro grandiosi laboratori di ricerca, gli stabilimenti di produzione dei grandi elaboratori della linea Ge-600, prospettandoci piani di sviluppo del settore finalizzati a sconfiggere il colosso IBM, e così via. In fondo sembravano volerci infondere un senso di impotenza, facendo risaltare il divario con le nostre scarse risorse, il nostro limitato mercato italiano, la nostra arretratezza.

Devo dire che questo senso di superiorità e anche di arroganza che caratterizzava il clima delle trattative ( che per la parte a noi riservata si limitavano a definire qualche aspetto di secondaria importanza ), da una parte mi dava la netta sensazione che i giochi fossero già fatti, dall’altra mi spinse, perso per perso, ad assumere un atteggiamento di bellicosa opposizione all’accordo, a tutti i tavoli ai quali ebbi la ventura di essere chiamato. Cercavo in fondo di salvare qualche spazio residuo per il mio lavoro e per quello dei miei collaboratori.

La conclusione fu che gli americani fecero sapere, neppure tanto discretamente, a Roberto Olivetti che non sarebbero stati scontenti se l’ingegner Perotto, pur facendo parte del laboratorio elettronico di Pregnana che veniva loro ceduto, se ne fosse rimasto con la Olivetti. E così puntualmente avvenne.

2 Una coabitazione difficile.

Dopo l’annuncio ufficiale dell’accordo, sembrò che una cortina di ferro fosse improvvisamente discesa a separare il mio piccolo gruppo, che era poi costituito da quattro-cinque persone, e il resto del laboratorio di Pregnana. Intervennero subito i contabili ad inventariare scrupolosamente gli attrezzi e gli strumenti del nostro ufficio, vennero predisposti dei percorsi da seguire per entrare ed uscire, ai fini di garantire la riservatezza e la separatezza ( in omaggio ai propositi di interscambio di informazioni e di collaborazione che erano stati declamati durante le trattative ! ), in una parola si creò subito un clima da guerra fredda.

Eppure, come venne ripetutamente dichiarato in comunicati della direzione della Olivetti e in riunioni coi dirigenti, l’accordo doveva assicurare ” larghe possibilità di sviluppo e di progresso” alla stessa Olivetti, mettendola in condizioni di partecipare alla ricerca e alle sperimentazioni condotte dalla OGE. Inoltre si sperava nel fatto, così recita il verbale di una riunione del consiglio di gestione dell’Olivetti, che ” la General Electric potrà essere nostra cliente nei prossimi anni per tutte le apparecchiature sussidiarie che le saranno necessarie e che noi potremo fornire “.

Il comunicato ufficiale inoltre sorvolava pietosamente sulla quota acquisita dagli americani nella nuova società, che si precisava invece essere ” italiana ” e con sede a Milano. Anzi, la precedenza data all’Olivetti nel nome, contribuiva all’illusione di contare ancora qualcosa, e infatti qualche commentatore arrischiò l’ipotesi che potesse essere una joint-venture fifty-fifty. Ufficialmente la realtà, a parte le indiscrezioni, venne tenuta nascosta fino al primo luglio 1965, quando la società venne formalmente costituita, e si seppe che gli americani avevano avuto il 75% del capitale sociale.

Ma a parte le ambiguità e le reticenze che accompagnavano la operazione complessiva, era la posizione mia e del mio piccolo gruppo ad essere estremamente difficile. Ci trovavamo in territorio straniero, trattati come indesiderabili proprio da quelli coi quali avremmo dovuto collaborare, da una parte; e, dall’altra, Ivrea aveva abbondantemente dimostrato di non sapere cosa farsene di noi. Anzi dall’establishment eporediese cominciavano a giungere gli echi dei sospiri di sollievo con cui la duplice operazione, del ricambio al vertice e dell’accordo con gli americani, era stata accolta. Meglio di così non poteva andare, in un colpo solo si erano tolti di mezzo dei pericolosi concorrenti interni e dei dissipatori delle risorse aziendali.

Ma quale il motivo di una partecipazione Olivetti così bassa al capitale della OGE ? Non si sa se credere a quanto disse Roberto Olivetti, ossia che ” in questo modo la società si e’ posta nelle condizioni di poter sostenere anche in futuro la quota riservatasi, stimando di poter partecipare ai futuri aumenti di capitale che la nuova società dovrà realizzare “, oppure a Peccei quando disse che mantenere il 25% era solo una via per salvare in qualche modo la faccia e nascondere la vera intenzione di sbarazzarsi completamente della elettronica.

Ma da quello che successe di li a non molto, nel 1968, ossia la completa uscita della  Olivetti  dal  capitale della OGE     

( che con l’occasione cambiò nome e divenne General Electric Information System Italia ), si e’ portati a dare ragione a Peccei.

In questo modo il nobile sogno di Adriano avviato nove anni prima, nel 1955, sembrava concludersi in modo miserabile, tra reticenze e menzogne, e con la triste realtà che tutto l’investimento fatto in risorse umane, ricerche, successi, speranze, si riduceva a quattro o cinque derelitti naufraghi, privi addirittura di un posto dove stare, trattati come stranieri in patria. Ma tutto non era perduto, perché la volontà non era stata ancora domata.

3 La rivincita della meccanica.

A Ivrea si stava nel frattempo preparando la rentree in forze sul mercato, con nuovi prodotti a tecnologia meccanica. Il nuovo vertice non poteva limitare la propria strategia ad una operazione negativa, come la cessione dell’elettronica, senza contestualmente farsi promotore di una nuova linea di sviluppo strategico. E la nuova linea era rappresentata dal progetto di nuovi prodotti, molto sofisticati , che erano in preparazione al Centro Studi di Ivrea.

Con le conoscenze che abbiamo oggi, questa strategia dell’Olivetti potrebbe sembrare incredibile. Eppure le tecnologie disponibili nei primi anni 60 la potevano rendere plausibile. Al punto che sulla copertina della rivista americana ” Business Week ” comparve, a piena pagina, la fotografia di Peccei, con questo titolo: ” La Olivetti troverà nella meccanica le chiavi del suo futuro successo “.

I progettisti-inventori di Ivrea si erano rimessi di buona lena a sviluppare due nuove famiglie di prodotti, l’una basata su una supercalcolatrice meccanica scrivente, la ” Logos 27 “, e una seconda su una contabile pure meccanica dotata di un sistema di programmazione molto sofisticato, che ricordava i cartoni delle pianole o dei telai Jaquard dell’ ottocento. In un certo senso queste macchine avevano mutuato dai calcolatori elettronici alcuni concetti di logica organizzativa, ma la traducevano in termini di lamiera, alberi ruotanti, arpionismi, ingranaggi. Ogni dispositivo di queste macchine era un gioiello di genialità e di creatività, e avrebbe certamente fatto ingelosire il matematico inglese Charles Babbage, che, come e’ noto, nell’ottocento tentò di costruire con i meccanismi realizzabili allora dei modelli di macchine da calcolo a programma, che furono i primi precursori  dei  moderni  calcolatori.   Ma i progettisti-inventori di Ivrea, ricchi di genialità ma poveri di cultura e di conoscenze storiche, non conoscevano questi antecedenti e la loro sfortuna fu di nascere 150 anni dopo Babbage, proprio alle soglie della rivoluzione elettronica. Per essi inoltre la tecnologia meccanica e quella particolare meccanica della lamiera che loro stessi avevano inventato era tutto il loro patrimonio,  che gli aveva dato prestigio, potere, benessere, pur se limitato al microcosmo olivettiano della cittadella della tecnologia eretta da Adriano.

Fu facile per loro convincere lo sprovveduto nuovo vertice della Olivetti che queste macchine avrebbero rinnovato i successi e i profitti degli anni 50. Sì, certo, la elettronica sarebbe arrivata, ma chissà quando e all’Olivetti conveniva non uccidere la gallina dalle uova d’oro che teneva nelle sue mani esclusive, ma sfruttare al massimo il patrimonio di conoscenze accumulato negli anni. Patrimonio che non era soltanto quello dei progettisti del Centro Studi, ma dell’intera azienda, dai tecnici agli operai delle produzioni, al personale che si occupava della assistenza e manutenzione dei prodotti, agli stessi commerciali.

D’altra parte nella Olivetti degli anni 60 si era verificato un fenomeno stranissimo, che era la pressoché assoluta mancanza di personale elettronico. Mi spiego meglio: in qualunque azienda meccanica, ad esempio nella stessa FIAT, un certo numero di ingegneri elettronici venivano periodicamente assunti e destinati a vari ruoli, o di tipo esplorativo, o per realizzare apparecchiature speciali, o semplicemente per stare a  vedere che cosa avrebbero combinato. La stessa cosa succedeva nell’Olivetti di Ivrea, però in quest’azienda non appena si scopriva che un ingegnere o un tecnico era in odore di elettronica, lo si impacchettava e lo si spediva alla Divisione elettronica. Il risultato era stato che, al momento della cessione agli americani, la casa di Ivrea si era ritrovata in una situazione di cultura tecnica che ricordava quella di un’azienda ottocentesca.

Fabbricare prodotti meccanici implica grandi investimenti in strutture produttive, edifici, macchinari e questi devono essere predisposti per tempo. Partirono quindi le realizzazioni degli stabilimenti di Scarmagno presso Ivrea, di Crema in Lombardia, di Marcianise in Campania, tutti dotati di enormi capannoni, di grandi magazzini, di uffici per i tecnici dedicati alla ingegnerizzazione dei nuovi prodotti.

La complessità dei nuovi prodotti era molto forte, ma anche la posta era alta. Sul loro successo si basava la credibilità della nuova direzione Olivetti e non si poteva sbagliare. Era pur vero che nelle fasi di ingegnerizzazione, ossia nel processo di adattamento dei prodotti alle esigenze dei metodi di produzione, si erano riscontrate molte difficoltà con la necessità di continue riprogettazioni e rifacimenti, però si contava sulla esperienza accumulata da decenni dall’intera azienda.

Natale Capellaro non partecipò in modo attivo allo sviluppo della nuova generazione di prodotti meccanici; ormai la palla era passata ai suoi diretti collaboratori che erano diventati autonomi e colloquiavano direttamente col vertice aziendale. D’altra parte anche se era arrivato a ricoprire la carica di direttore generale, la sua vocazione era sempre stata quella del creatore, dell’inventore, più che quella del coordinatore. In effetti i nuovi prodotti non portavano la sua impronta, e, come ebbe modo di dirmi qualche  anno più tardi, quando entrai in maggior confidenza con lui, egli non aveva nascosto a Peccei la sua preoccupazione per la loro eccessiva complicazione tecnica, però non era stato ascoltato. Queste le sue parole, che ricordo ancora benissimo: ” Io ho sempre cercato di privilegiare la semplicità, anche perché avendo fatto l’operaio alla linea di montaggio sapevo capire molto bene i problemi di quei poveretti che devono produrre. Talvolta sono riuscito a creare qualcosa di nuovo semplicemente copiando e semplificando le soluzioni dei nostri concorrenti. Mi pare che con questi nuovi progetti si voglia emulare l’elettronica e che si sia perso il senso del limite che le tecnologie meccaniche non possono superare “.

Ma la voce di Capellaro era isolata. I capi delle produzioni, gli stessi commerciali sognavano il rilancio e richiedevano prestazioni sempre più elevate che i progettisti cercavano di incorporare nei prodotti. Tutti desideravano lasciarsi alle spalle nel più breve tempo possibile la crisi dei primi anni 60; la Olivetti era come un treno lanciato in piena corsa e non era più possibile fermarlo.

Per la grande rentree venne scelto un palcoscenico di eccezionale rilevanza internazionale, il BEMA show, la grande mostra mondiale delle macchine per l’ufficio, a New York, nell’ottobre del 1965.

4 Per gentile concessione.

Tornando a Pregnana Milanese, troviamo un’ atmosfera ben diversa. La sensazione mia e dei miei collaboratori era quella di essere stati dimenticati, e, se per una dannata eventualità qualcuno dell’ufficio personale si fosse accorto della nostra esistenza, ritenevamo che la conseguenza più probabile sarebbe stata o il licenziamento  o l’invito a trovarci un altro posto.

L’Olivetti però aveva e forse ha mantenuto anche oggi, almeno in parte, una peculiarità singolare: quella di consentire a chi non ha il cattivo gusto di andare a chiedere cosa può fare di utile, domanda sempre imbarazzante, di godere di una invidiabile libertà. Un’ altra domanda che ritenni non opportuno porre a nessuno era da chi mai noi dipendevamo. In altre parole invece di preoccuparci più di tanto del nostro stato di abbandono, di essere senza capi e senza lavoro, cercammo di individuare uno scopo e un obiettivo e inoltre di costruirci un ambiente nel quale potessimo lavorare.

I miei rapporti personali coi progettisti di Ivrea erano sempre stati buoni, la collaborazione che si era stabilita ai tempi del convertitore nastro-schede aveva portato a una situazione di stima reciproca, e in fondo i progettisti-inventori del Centro Studi mi dovevano qualche segno di riconoscenza per aver realizzato un marchingegno che aveva consentito di valorizzare le loro contabili meccaniche. Inoltre dopo la cessione dell’elettronica, le ragioni della rivalità e della competizione erano cadute, per cui i rapporti interni erano più distesi. In sostanza, della specie degli elettronici io ero considerato il meno peggio e per giunta, viste le circostanze, anche il meno pericoloso.

Feci quindi presente che il mio programma di lavoro era quello di esplorare la possibilità di utilizzare la elettronica in futuri piccoli calcolatori di fascia più alta di quella coperta dalle soluzioni in fase di progetto a Ivrea, ma non a livello dei grandi e costosi calcolatori esistenti sul mercato. La proposta non suscitò particolare opposizione e lo stesso ingegner Capellaro dimostrò interesse per il programma. Lo scopo che volevo raggiungere era quello di poter disporre di tutta una serie di risorse e di laboratori esistenti ad Ivrea, senza i quali non avremmo potuto realizzare alcunché. Naturalmente non mi venne data alcuna autorità gerarchica verso nessuno, ma la cosa non mi preoccupava: mi bastava che si diffondesse ad Ivrea la informazione che la mia attività non era sgradita e che godeva dell’appoggio di un capo carismatico come Capellaro.

Questa situazione di totale informalità si rivelò completamente efficiente e proficua e in pratica mi aprì tutte le porte, senza bisogno di dover spiegare a troppa gente che cosa esattamente avevo in mente di fare. D’altra parte, come molte esperienze degli anni successivi mi dimostrarono ampiamente, strutture organizzative troppo rigide  e prescrittive sono la causa del fallimento di un numero impressionante di progetti innovativi. La Olivetti aveva per fortuna mantenuto fin d’allora quel giusto compromesso tra determinismo e caos, che il più moderno pensiero manageriale oggi porta sugli scudi.

Cosa succedeva nel frattempo nella Olivetti-General Electric ? Purtroppo anche su quel versante i pianificatissimi americani sembravano avere dei guai. Gli americani non riuscirono mai a risolvere con chiarezza il problema del coordinamento delle attività di sviluppo dei nuovi prodotti divise tra Stati Uniti, Francia e Italia. La conseguenza fu che, immediatamente dopo la presa di possesso della Divisione elettronica, cominciarono le incertezze sugli obiettivi del laboratorio di Pregnana, e questo determinò un esodo di personale, che segnò per alcuni anni la storia della società. Dopo che alcuni programmi di ricerca erano stati tagliati, molti tecnici si trovarono senza lavoro e la direzione cominciò ad incoraggiare le dimissioni del personale, al punto che ” L’ Unità ” arrivava a scrivere: ” Si ha l’impressione che la General Electric si sia trasformata in questi ultimi tempi in un vero e proprio ufficio di collocamento del personale di cui non si sa più cosa fare. “

Era pur vero che la General Electric aveva comprato per un pezzo di pane la Divisione elettronica dell’Olivetti, ma questo successe più per la insipienza dei nuovi capi dell’Olivetti che per la sua abilità negoziale. Malgrado ciò non dovettero passare molti anni perché tutta l’operazione di sviluppo dell’informatica naufragasse e gli americani gettassero la spugna con gravi perdite.

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