PROGRAMMA 101:Capitolo quarto – Il momento della verità

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  • La fiera di New York.

La decisione di presentare la macchina alla fiera di New York ebbe il benefico effetto di legittimare il nostro lavoro all’interno della Olivetti e di farci ottenere più facilmente maggiori risorse per completarne la messa a punto.

Il lavoro da fare era ancora tanto e fino a quel momento disponevamo di un solo prototipo sul quale dovevano essere eseguite una grande quantità di prove e di verifiche tecniche. Vi era inoltre da mettere a punto il sistema di programmazione e anche da preparare un certo numero di programmi dimostrativi e sperimentali relativi ai possibili ambiti applicativi. Infine era necessario disporre di macchine da dare a personale dell’organizzazione commerciale e del marketing, perché potessero conoscere e valutare in modo più approfondito il nuovo prodotto.

Noi non avevamo ancora un’idea precisa e completa di tutti i problemi ai quali la macchina avrebbe potuto essere dedicata. Il calcolatore era, sì, universale, però la sua efficienza pratica nel risolvere problemi concreti era tutta da dimostrare, e per farlo occorreva avere a disposizione degli specialisti di problemi amministrativi, finanziari, attuariali, statistici, di fisica, di ingegneria e così via, in modo da costruire e provare programmi in tutti questi campi.

In sostanza era necessario passare dalla fase eroica e caotica dell’invenzione a quella molto più sistematica e ordinata della messa a punto e della ingegnerizzazione. Ebbi quindi la fortuna di poter riavere la collaborazione di un ingegnere che aveva tutte le doti adatte per questo impegnativo lavoro, Sergio Rebaudengo, che aveva già lavorato con me all’epoca del convertitore nastro-schede, anzi era stato il mio primo collaboratore da quando entrai in Olivetti, ancora nel periodo pisano. La sua presenza fu essenziale per il successo del lancio della Perottina e in generale per tutto il lavoro degli anni successivi di ricostruzione dell’elettronica in Olivetti.

Ma l’impegno più pressante era la preparazione della fiera. Ci eravamo perfettamente resi conto dell’importanza di quell’evento per il futuro del nostro lavoro, perché avremmo potuto finalmente conoscere direttamente le reazioni del pubblico e non soltanto sentire delle opinioni di esperti più o meno qualificati.

Nel 1965 non esisteva l’idea stessa di strumento di elaborazione ” personale “, con programma, supporto magnetico per l’ingresso e l’uscita dei dati e delle istruzioni, totalmente autosufficiente, da mettere sulla scrivania di un qualsiasi impiegato di un ufficio. Potevamo pensare che la macchina avrebbe potuto più facilmente essere accolta negli ambienti tecnico-scientifici, ma anche lì c’era il timore che questi fossero abituati ad usare strumenti di elaborazione più potenti, anche se più scomodi e meno accessibili. Questi ambienti avrebbero rappresentato comunque un mercato abbastanza limitato.

C’era poi una scuola di pensiero, allora nettamente dominante, che immaginava un futuro del mercato dell’informatica fatto di terminali ” stupidi “, collegati attraverso linee telefoniche al grande calcolatore centrale. Stupidi nel senso che , secondo questa teoria, i terminali non avrebbero potuto avere nessuna capacità locale di calcolo e di memoria, ma soltanto un televisore o una stampante e una tastiera e tutta ” l’intelligenza ” sarebbe stata concentrata al centro. Questa soluzione per molti sembrava la più razionale o la più economica o addirittura l’unica possibile.

La situazione poteva essere paragonata a quella dei trasporti verso la fine dell’ottocento, quando la soluzione dominante per il futuro veniva da molti identificata nelle ferrovie, riservando all’automobile individuale un ruolo del tutto marginale.

Per la Fiera comunque oltre ad allestire un certo numero di prototipi, ritenemmo opportuno preparare dei programmi ad hoc, alcuni molto seri, ad esempio calcoli di ingegneria civile o di progettazione di circuiti elettrici, altri meno, come alcuni giochi nei quali un visitatore stesso avrebbe potuto giocare contro la macchina.

E finalmente il gran giorno arrivò e De Sandre, io e qualche altro collega ci imbarcammo con le macchine, gli strumenti, i pezzi di ricambio, sull’aereo, destinazione New York.

La fiera era immensa, ad essa partecipavano tutti i principali costruttori mondiali, sia di grandi calcolatori elettronici, IBM in testa, sia di macchine per ufficio. La Olivetti aveva fatto le cose in pompa magna, con uno stand di forma semicircolare, come un grande palcoscenico nel quale erano stati posti, su delle piattaforme, i nuovi prodotti di bandiera meccanici, le calcolatrici Logos 27. Intorno vi erano nuovi modelli di macchine per scrivere, addizionatrici, fatturatrici, contabili, in gran parte dotate di nuove carrozzerie frutto di un generalizzato rinnovo dello stile, con una classe all’altezza della tradizione di eccellenza della società. In una saletta riservata, sulla parete di fondo dello stand, era collocata una Perottina, per la quale con l’occasione era stato adottato il nome commerciale di ” Programma 101 “.

Si era posto infatti, subito dopo la decisione di presentare le macchina alla fiera, il problema del nome. Dopo uno studio molto sofferto, si era  scelta opportunamente la parola ” programma “, che richiamava una delle caratteristiche salienti o addirittura esclusive del nuovo prodotto. La scelta del numero, ” 101 “, era un po’ meno motivata, ma si era concluso che in inglese la pronuncia ” uan-o-uan ” suonava bene.

Un evento non previsto.

Nel 1965 non era ancora così di moda come oggi parlare di strategia aziendale, però la Olivetti aveva elaborato una sua strategia, che partendo da certe premesse aveva una sua coerenza. Essa era basata su una visione molto realistica, forse troppo, dei punti di forza e debolezza della azienda e aveva concluso che la forza stava nel possesso esclusivo di una tecnologia che aveva sempre assicurato un eccellente rapporto tra prezzo di vendita e costo, e in una organizzazione commerciale capillare e aggressiva capace di vendere qualsiasi cosa. Oggi diremmo che aveva individuato la via del successo nel ritorno al suo “core business “. Non a caso la rivista Business Week aveva dedicato alla ditta una delle sue recenti ” cover story “, con la storica frase: ” la Olivetti troverà nella meccanica le chiavi del suo futuro successo “.

Non aveva però tenuto conto di un particolare, ossia che il mondo cominciava a cambiare; e con una velocità che da allora non avrebbe fatto altro che crescere e crescere con ritmo impressionante. E questa tendenza al cambiamento, questa voglia di cambiare, non sarebbe più stato un fenomeno trascinato soltanto dalle tecnologie, ma sarebbe stata recepita e promossa dai clienti, dal mercato, che avrebbero operato come un amplificatore potentissimo.

Infatti all’apertura della rassegna, al primo confronto della strategia elaborata a tavolino col mercato, si verificò un fatto imprevisto e sconvolgente.

Non appena il pubblico si accorse della Programma 101 e si rese conto delle sue prestazioni, cominciò ad affollarsi nella saletta, desideroso di mettere le mani sulla tastiera, di avere informazioni su quando il prodotto sarebbe stato disponibile, sul suo prezzo. In un primo tempo le reazioni furono quasi di diffidenza: alcuni chiesero se per caso la macchina non fosse azionata da qualche grosso calcolatore nascosto dietro la parete !

Poi la diffidenza si mutò in stupore, infine in entusiasmo. I dipendenti americani dell’Olivetti che presidiavano lo stand vennero distolti dalla presentazione di tutte le altre macchine esposte in prima fila e furono monopolizzati dal nuovo prodotto elettronico.

Trascinati dal pubblico, di buon grado si dedicarono alle dimostrazioni, a fornire informazioni, a far giocare la gente con la macchina. Io stesso venni pregato di prestarmi a far parte dell’esibizione, giocando ad una specie di partita ai dadi, nel quale l’uomo e il computer si sfidavano a raggiungere un numero predeterminato, senza superarlo; e dato che venivo frequentemente battuto, questo dava al presentatore la opportunità di proclamare: ” la Programma 101 riesce a battere il suo creatore ! “.

Pochissima attenzione venne riservata a tutte le altre macchine dello stand. La situazione si complicò ancora nei giorni successivi, quando il personale dovette organizzare un specie di servizio d’ordine per regolare l’eccezionale afflusso dei visitatori alla saletta.

Alla conclusione della fiera, fummo convinti che ormai si era avviato un processo irreversibile e creata una aspettativa che non si poteva più deludere.

La situazione che si era creata alla fiera era obiettivamente molto imbarazzante per la cosiddetta alta direzione. Poco più di tre mesi prima, esattamente il primo luglio 1965, era nata formalmente la ” nuova società italiana OGE “, che sanzionava ufficialmente e inequivocabilmente la cessione alla General Electric della elettronica, come una tecnologia non interessante per il mercato Olivetti, e quei diavoli di progettisti, rimasti ancora vivi malgrado l’epurazione, andavano a tirar fuori un prodotto elettronico di successo, mai realizzato da nessuno.

Non si poteva neppure sostenere che la Programma 101 era il frutto della collaborazione tra Olivetti e General Electric, perché sarebbe stato totalmente falso, e tutti sapevano che tra le due società non si era attuata la minima cooperazione dopo la cessione.

Ma non si trattava soltanto di una questione di imbarazzo. La realtà si rivelò di li a poco assai più grave. I nuovi prodotti meccanici, prima di tutto la Logos 27, non si riuscivano a mettere a punto e ad avviare in produzione. Tutta la decennale competenza meccanica della Olivetti era stata mobilitata, ma dalle linee di montaggio i prodotti uscivano a stento. Per giunta l’accoglienza del mercato si era rivelata tiepidissima.

Il successo della Programma 101 si ripeté nelle successive presentazioni, a Mosca nel dicembre dello stesso anno, poi nelle varie capitali europee ed infine in Italia, a Milano, nell’aprile del 1966, prima in una presentazione riservata alla stampa e poi alla fiera campionaria.

La cosa determinò un netto rafforzamento della posizione in ditta di Roberto Olivetti, che era sempre stato considerato un fautore dell’elettronica, e favorì la presa di tutta una serie di decisioni, tra le quali ovviamente l’avviamento più rapido possibile della produzione, alla quale venne destinato lo stabilimento di San Bernardo, presso Ivrea. San Bernardo era stato scelto in quanto era la sede della produzione dei prodotti più complessi dell’Olivetti, come le macchine contabili, però anche lì la competenza elettronica era totalmente assente.

Ci rendemmo immediatamente conto che la responsabilità effettiva della operazione sarebbe ricaduta integralmente sulle nostre spalle e che avremmo dovuto inventarci tutto, dalla organizzazione delle linee di montaggio, ai metodi di fabbricazione, ai collaudi.

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Per giunta di fronte al rischio tecnico di un prodotto così innovativo, tutta l’organizzazione stava prendendo le distanze, assumendo atteggiamenti di riserva, di dubbio, e anche di critica aperta al progetto.

Ricordo con tristezza una riunione, che vale la pena di raccontare in quanto esemplare, indetta da Peccei per fare il punto sulla situazione dell’avviamento commerciale della Programma 101, che era stato deciso avvenisse prioritariamente negli Stati Uniti, come mercato più avanzato e quindi più adatto a recepire un prodotto rivoluzionario.

`La riunione si aprì con una relazione di un gruppo di tecnici americani che esprimeva perplessità circa l’assistibilità della macchina sul mercato, non disponendo la Olivetti di tecnici elettronici. Chiamato immediatamente in causa, spiegai che la manutenzione era stata prevista dal progetto attraverso una procedura di individuazione delle piastre rotte e la loro sostituzione, e non richiedeva personale specializzato. Sostenni però la pericolosità di avviare le vendite in America, dove per evidenti ragioni tutto era più difficile, e la opportunità di cominciare invece dall’Italia. Nello stato in cui era stata ridotta la Olivetti, questa precauzione mi sembrava il minimo da prevedere. La cosa venne presa malissimo da Peccei, che accusò i progettisti di non aver fatto un prodotto sicuro e di non poterne garantire la funzionalità. Ne nacque un battibecco, nel quale Peccei disse, a un certo punto, che non capiva come mai si riuscivano a fare in modo affidabile automobili che pure andavano nel fango e nelle intemperie e si trovavano difficoltà a fare prodotti che dovevano operare in un tranquillo ufficio !

Capellaro, presente alla riunione, con l’intento di rasserenare gli animi, rivolto a Peccei disse bonariamente: ” caro dottore, lasciamo fare ai tecnici, tanto, cosa vuole, ne’ lei, ne’ io ne capiamo niente di elettronica “. Ma la frase non venne precisamente presa bene dal destinatario e il lancio prioritario della Programma 101 in USA venne confermato.

L’avviamento in produzione.

I problemi di far decollare la produzione di un prodotto elettronico innovativo come la Programma 101 in un ambiente non preparato non ci facevano dormire la notte. Avevamo da poco realizzato con il concorso diretto di tutti i progettisti una preserie di una decina di macchine, che erano state date in visione e in uso ai settori interessati dell’azienda, ma la produzione di serie era tutta un’altra cosa.

Si trattava di utilizzare operai abituati da sempre a fabbricare pezzi e a montare gruppi meccanici, di interloquire con tecnici esperti di metodi e di processi nei quali la parte tangibile, geometrica era prevalente. Nell’elettronica le difficoltà, i problemi, erano più nascosti, più difficili da individuare. I processi potevano essere tenuti sotto controllo solo utilizzando apparecchiature complicate, che richiedevano competenze e sensibilità diverse.

Per di più il direttore di produzione aveva assunto un atteggiamento singolare. ” Io monto le macchine -disse- seguendo rigorosamente le prescrizioni del progetto.  Dopo di che, sia che funzionino, sia che non funzionino, le imballo e le spedisco. ” La cosa era, dal punto di vista di una logica astrattamente cartesiana, ineccepibile, però e’ chiaro che ci lasciava non poche preoccupazioni, pensando a quegli americani che avrebbero aperto le casse e sballato le macchine negli uffici dei clienti. Nel clima di nervosismo estremo in cui l’azienda si trovava in quel momento, sarebbe certamente bastato il minimo problema sollevato da un cliente e opportunamente amplificato, come al solito, dai commerciali, per mandare tutto all’aria. E i capri espiatori erano già belli e individuati.

Non sto a raccontare le vicende, le ansie, i contrasti di quell’efferato periodo.

Ricordo solamente un episodio che ne riassume bene lo spirito.

Quando fummo informati che i primi lotti di macchine erano usciti dalla linea di montaggio ed erano pronti per essere spediti, ci guardammo in faccia, con De Sandre e Rebaudengo, con la netta sensazione di essere imbarcati su un treno diretto verso un burrone. La disperazione ci fece prendere una decisione estrema: ci recammo a San Bernardo, la sera, a stabilimento chiuso; con una scusa ci facemmo aprire dalle guardie e cominciammo a sballare le macchine, togliendole dalle casse, una per una. Lavorammo tutta la notte e ancora quella successiva, a provare, a riparare, a sostituire. Una settimana dopo il primo lotto partì per l’America perfettamente funzionante.

Ma tra tante difficoltà, fummo favoriti da una circostanza che non avevamo previsto e riguardava la OGE. Ci giungevano sempre più frequentemente voci di crisi, di gente senza lavoro, di americani molto incerti sulla validità della decisione di entrare nel business   dell’informatica.            

D’altra         parte, pensando  alla ex Divisione elettronica dell’Olivetti, ci eravamo sempre chiesti, fin dal momento della cessione, se i naufraghi eravamo noi, rimasti in Olivetti, o i colleghi ” venduti ” alla General Electric. E avevamo fino  a  quel  momento  sempre  concluso che i naufraghi eravamo noi. Ora però la situazione stava lentamente cambiando; le voci riguardanti il successo mondiale della Perottina si spargevano a Pregnana e a Caluso, e io sempre più di frequente ricevevo telefonate di ex colleghi, che si informavano dei nostri programmi e chiedevano di ritornare in Olivetti.

Questa iniezione di risorse umane fu incredibilmente preziosa. Si cominciava a ricuperare un patrimonio inestimabile di conoscenze e di professionalità, che sembrava irrimediabilmente perduto. Si cominciava a respirare aria di ricostruzione !

Un bollettino di vittoria.

L’anno 1966 fu l’anno dell’avviamento della prima produzione elettronica in uno stabilimento dell’ Olivetti di Ivrea. E le prime macchine prodotte furono quelle spedite negli Stati Uniti.

Poco tempo dopo l’installazione delle prime macchine presso i clienti, ci giunse da New York questo telegramma: ” Le Programma 101 funzionano perfettamente e i clienti sono entusiasti “.

La situazione di perplessità e scetticismo rapidamente scomparve e venne sostituita da un sentimento diffuso di ansiosa attesa del prodotto da parte di tutte le consociate dell’Olivetti sparse per il mondo. La consociata americana avanzò la richiesta di avviare una produzione della Programma 101 negli Stati Uniti, per poterle dare il marchio ” made in USA ” e favorirne le vendite agli enti governativi federali. Infatti ci giunse notizia che la Nasa ne aveva comprato molte unità, per utilizzarle nelle sue ricerche spaziali. Mai prima di allora , in un prodotto commerciale, tanta potenza di calcolo era stata concentrata in un volume e in un peso così piccoli.

Ci venne pure riferito che anche il colosso IBM ne aveva comprato alcuni esemplari, per analizzarli e capire quale diavolo di tecnologia i progettisti italiani avevano utilizzato.

Certamente la organizzazione commerciale della Olivetti non aveva le competenze più adatte per vendere il nuovo prodotto, ma l’entusiasmo che si venne a diffondere dappertutto supplì alla carenza di preparazione. Nella più parte dei casi comunque la macchina si vendette da sola, sopratutto negli ambienti a maggior cultura tecnica o scientifica. Ai tecnici e agli uomini di scienza non pareva vero poter finalmente far crollare le secolari barriere di incomunicabilità erette intorno ai grandi e inaccessibili calcolatori elettronici dei centri di calcolo e disporre di uno strumento individuale a supporto della loro creatività.

Per un dollaro in più….

In previsione della diffusione internazionale della macchina fu necessario prevedere in anticipo una copertura brevettuale adeguata, estesa a tutti i paesi del mondo. Già in Italia si era provveduto a depositare una domanda di brevetto, ma il paese importante erano gli Stati Uniti, per due ragioni. La prima era ovviamente legata alla dimensione del mercato statunitense e al fatto che si trattava della sede di tutte le principali società di informatica. La seconda era rappresentata dal fatto che la  legislazione sui brevetti in quel paese e’ particolarmente severa e implica, per il rilascio, un esame di merito della priorità dell’invenzione estremamente approfondito e serio. Inoltre un brevetto americano, a differenza che in Italia, non può essere attribuito ad una società, ma sempre e solo ad una persona fisica. Anche in queste cose si rivela il livello di civiltà e di rispetto per l’individuo di un paese.

La domanda di brevetto copriva non soltanto le soluzioni tecnologiche, ma la organizzazione generale e la filosofia stessa della macchina, che era quello al quale tenevamo di più, perché era nello stesso tempo la parte più immateriale e la più rivoluzionaria. Vi era inoltre una parte significativa dedicata alla cartolina magnetica, che nessuno aveva mai utilizzato prima e che costituiva una parte essenziale dell’idea del prodotto.

Consideravamo importantissima la copertura brevettuale in quanto era l’unico modo per difenderci da una concorrenza, che, come constatammo dopo poco,  era rimasta fortemente impressionata dal prodotto e l’aveva analizzato in tutte le sue parti per comprenderne la logica e possibilmente imitarlo.

Il brevetto venne quindi presentato a nome mio e di De Sandre e l’ufficio brevetti dell’Olivetti ci fece presente che dovevamo contestualmente firmare una dichiarazione di cessione alla ditta di tutti i diritti, con una formula di rito, che recitava: ” Cedo alla Olivetti, per un dollaro e per altri ragguardevoli motivi, tutti i diritti conseguenti alla invenzione descritta nella domanda di brevetto numero 3.495.222, depositata il primo marzo 1965, a nome di P.G. Perotto e altri, dal titolo: Program  controlled electronic computer “. Mai un dollaro fu meglio speso da una società !

La operazione risultò assai fruttuosa per un’altra ragione, che intervenne nel 1967. Apprendemmo in quell’anno che una primaria ditta americana, la Hewlett-Packard, aveva introdotto sul mercato un prodotto che ricalcava la organizzazione logica della Programma 101 e in particolare faceva uso proprio di una cartolina magnetica; si trattava dell’HP 9100. La contestazione della Olivetti fu accolta con grande correttezza da questa società, che, senza andare in giudizio, riconobbe la violazione e accettò di pagare royalty alla Olivetti. Nel corso degli anni circa 900.000 dollari entrarono nelle casse della Olivetti, a questo titolo.

Come ritorno dell’investimento, non c’era male.

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