PROGRAMMA 101:Capitolo quinto -La rivoluzione microelettronica

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Capitolo quinto :     La rivoluzione microelettronica

1 Il ritardo dell’Olivetti.

Malgrado le traumatiche vicende che avevano caratterizzato la fine del 1965 e l’inizio del 1966, l’establishment della Olivetti continuava ad essere tenacemente ancorato ad una visione molto tradizionale dei problemi. L’avviamento dei nuovi prodotti meccanici era praticamente fallito, anche se le Logos 27 continuavano ad essere presentate, e, con le speranze di rilancio sui mercati di massa, se ne erano andati fior di miliardi di progetti abortiti, di attrezzature da rottamare, di stabilimenti esuberanti. I dirigenti dei settori amministrativi, delle produzioni, dei settori commerciali, non si erano ancora convinti che una vera e propria rivoluzione stava per cadere loro addosso.

” La Programma 101 -essi dicevano- e’ un bellissimo prodotto, però copre un mercato di elite. La Olivetti vive di macchine per scrivere, di calcolatrici a quattro operazioni, di addizionatrici, ossia di prodotti di massa, da produrre in grandi serie, al ritmo di centinaia di macchine all’ora e a costi ai quali l’elettronica non potrà mai giungere “. Essi avevano sì accettato, obtorto collo, la elettronica, ma solamente in un ambito limitato, che si ostinavano a considerare marginale.

La conseguenza organizzativa di questa mentalità fu la creazione di un piccolo gruppo, denominato Divisione Sistemi, affidato a Roberto Olivetti, comprendente lo stabilimento di San Bernardo, dove venivano prodotti la 101 e le macchine contabili, lo stabilimento di San Lorenzo ad Ivrea, dedicato a produrre le telescriventi, e poche altre cose. Ma malgrado tutti questi santi in terra, la Divisione sistemi di santi in paradiso continuava ad averne pochi e rispetto a tutto il resto della Olivetti disponeva di risorse assolutamente insufficienti.

Il mio gruppo, che aveva mantenuto la piccola base a Pregnana Milanese ( ma ancora per poco tempo ), aveva ormai il suo baricentro ad Ivrea. Aveva assunto il burocratico nome di Ufficio progetti elettronico-meccanici, ed aveva incorporato molti dei preziosi collaboratori che avevano contribuito al progetto della 101.

In sostanza la Olivetti reagiva ai primi segnali della incombente rivoluzione microelettronica, con una politica quasi di resistenza passiva, facendo il minimo possibile e lasciandosi trascinare dagli eventi. In senso strategico la straordinaria opportunità della Programma 101 non venne colta. Si sarebbe dovuto disporre di tutto il patrimonio di risorse appena ceduto alla General Electric, per orientarlo non più a progettare grandi calcolatori, ma i nuovi prodotti nascenti di informatica distribuita, che cominciavano a germogliare nel mondo. Ma sopratutto sarebbe occorso un top management lungimirante, coraggioso e capace di rinnovare la cultura aziendale.

La Olivetti continuava ad essere forte nel campo del calcolo e delle macchine per scrivere, campi nei quali deteneva quote di mercato di tutto rispetto. Nel calcolo scrivente, malgrado il fallimento della Logos 27, i prodotti meccanici, dovuti alla magica intuizione di Capellaro di quindici anni prima, dominavano ancora il mercato e, sopratutto, assicuravano una redditività da sogno. Attorno ad essi l’intera azienda, coi suoi sprechi e i suoi errori, pretendeva di vivere ancora negli anni 60.

Ma la concorrenza non stava con le mani in mano. E i nuovi concorrenti non  erano più quelli tradizionali ( gran parte dei quali non sopravvisse alla esplosione della rivoluzione della elettronica ), ma outsider, sopratutto giapponesi, che cominciavano a presentare calcolatrici elettroniche concorrenziali di quelle meccaniche.

In sostanza, malgrado l’exploit della Programma 101, la Olivetti era ormai costretta a giocare in difesa e a combattere una strenua battaglia per proteggere la propria roccaforte assediata.

La concorrenza nascosta.

Ma il pericolo grave non stava nella concorrenza dei primi prodotti elettronici e dei nuovi costruttori di macchine da calcolo comparsi sul mercato, molti dei quali non disponevano della potente e capillare organizzazione commerciale dell’Olivetti; questi in un certo senso erano soltanto la punta di un iceberg, ma era la parte nascosta, rappresentata dallo sviluppo e dalla potenzialità intrinseca della tecnologia dei semiconduttori a costituire la vera minaccia.

A partire dalla metà degli anni 60 si cominciavano ad intravedere straordinarie possibilità della tecnologia di realizzare componenti complessi, non più costituiti da un singolo transistor, ma dalla integrazione in un solo componente di decine e decine di transistor. I circuiti integrati rappresenteranno veramente la soluzione totale di tutti i problemi di realizzazione dei prodotti informatici, che negli anni 50 e primi anni 60 avevano intrigato così pesantemente tutti i progettisti e avevano reso difficile od impossibile realizzare prodotti di informatica distribuita.

Di lì a pochi anni non ci sarà più bisogno di torturarsi il cervello per pensare a memorie a nuclei magnetici, a linee magnetostrittive, a marchingegni strani facenti ricorso alle tecnologie più disparate. Quasi tutto sarà reso disponibile con straordinaria facilità dai cosiddetti circuiti LSI ( acronimo di Large Scale Integration ), coi quali si faranno componenti praticamente standardizzati, prodotti a centinaia di milioni di pezzi, come memorie, microprocessori, dispositivi vari, posti in vendita come pezzi di un meccano.

Anche in questo campo la Olivetti aveva avuto delle intuizioni anticipatrici, per merito sopratutto di Roberto Olivetti, fondando in Italia, assieme all’americana Fairchild, la SGS, al fine di produrre i semiconduttori. Ed in Fairchild i contatti e gli accordi erano stati presi proprio con quel Bob Noyce, che dopo aver lavorato nei laboratori americani della Bell, assieme al gruppo di ricercatori che avevano inventato i transistor, si era trasformato in un imprenditore-inventore e aveva concepito l’idea dei circuiti integrati. Noyce alla fine degli anni 60, con tutta la sua squadra di ricercatori, lascerà la Fairchild per fondare l’Intel, la mitica azienda della Silicon Valley, che nel 1970 inventerà il microprocessore.

Ma l’opportunità che non si seppe sfruttare non fu tanto l’avere successivamente deciso di uscire dal settore, quanto non aver capito per tempo che questi componenti avrebbero avuto una evoluzione tale da mettere fuori gioco qualunque altra tecnologia. Infatti nei primi anni 60 i primi circuiti integrati costavano ancora 60-100 dollari, ma sarebbero scesi a qualche dollaro alla fine del decennio. Nello stesso tempo ogni circuito passava da contenere qualche decina di transistor a migliaia e a decine di migliaia.

La Olivetti si era trovata tra le mani la SGS, quando nel 1968 la Fairchild decise di uscire, in quanto la ditta americana non aveva alcuna intenzione di partecipare ai costi della ricerca, che la SGS voleva fare e che invece lei voleva tenersi ben stretta in America. Ma la SGS senza la Fairchild, o meglio senza la capacità creativa del gruppo di Noyce, era come un corpo senza il cervello e non poteva che vivacchiare, come infatti avvenne, tanto che alla fine la Olivetti ne cedette il controllo al gruppo IRI-STET.

Ma nel campo dei semiconduttori oltre alla straordinaria crescita delle potenzialità, un altro fatto notevole si era verificato: la assoluta prevedibilità della crescita stessa. Con la regolarità di un orologio svizzero il numero di transistor impaccato su di un

microcircuito si moltiplicava per un fattore 10 ogni cinque anni, e nella proporzione inversa si riducevano i costi.

La carenza fu quindi quella di non aver saputo costruire attorno a queste informazioni fondamentali una visione di scenario evolutivo, per essere in grado di pianificare il proprio futuro, favorendo lo sviluppo delle capacità creative del proprio personale. In altre parole, più che praticarla, la tecnologia dei circuiti integrati andava prevista nei suoi aspetti evolutivi e per l’impatto che avrebbe avuto sul core business dell’azienda.

Ancora una volta si dimostrava l’importanza di una cultura industriale innovativa, capace di anticipare, di scegliere, più che di possedere. Il mondo d’altra parte stava andando in una direzione nella quale non sarebbe più stato possibile possedere tutte le componenti tecnologiche necessarie per costruire prodotti avanzati, come per la tradizionale Olivetti coi suoi prodotti di lamiera.

Infatti la cessione della SGS non fu grave, in quanto i costruttori di circuiti integrati non si configurarono mai come concorrenti, ma sempre e solo come fornitori, ne’ i concorrenti della Olivetti che autoproducevano i componenti trassero mai da questo fatto un particolare vantaggio competitivo.

Quello che era invece urgente concepire e costruire era il nuovo scenario del mondo dell’informatica distribuita, del quale la Programma 101 era soltanto un primo isolato mattone.

Se Adriano fosse stato ancora vivo.

In quegli anni di grandi cambiamenti , mi ero sovente chiesto cosa sarebbe successo all’Olivetti se Adriano non fosse prematuramente morto, senza riuscire a  portare a compimento il disegno che con tanta lungimiranza aveva impostato. E me lo sono ancora chiesto ora, nella situazione di crisi del sistema industriale italiano, a più di 25 anni di distanza. Naturalmente la storia non si fa con i “se”, però a determinare gli eventi sono pur sempre certi valori, e penso sia istruttivo chiedersi se i valori ai quali Adriano Olivetti si era ispirato avrebbero potuto dare un diverso corso alle vicende dell’azienda e quindi anche del nostro paese.

La concezione che Adriano aveva dell’impresa era quella di un entità generatrice di cultura, con la persona umana posta al centro degli interessi del sistema. Egli inoltre vedeva l’impresa non come una entità staccata, isolata ed aliena rispetto al mondo esterno, ma profondamente integrata ed inserita nel territorio e nell’ambiente. I suoi interessi verso l’urbanistica, l’architettura, le arti, unitamente ad una visione  molto aperta delle tecnologie, lo avevano portato ad anticipare gli eventi e a generare quel clima di creatività diffusa, che caratterizzò la Olivetti degli anni 50.

Io sono convinto che i suoi interessi per la elettronica fossero motivati dal fatto che egli non aveva visto nella elettronica una semplice tecnologia, ma ne avesse intuito quella capacità diffusiva, di disciplina orizzontale capace di svolgere una funzione regolatrice verso tutti gli altri settori. Aveva probabilmente intravisto una elettronica che sarebbe diventata la base di una futura industria informatica, quasi come una urbanistica delle attività immateriali, nelle quali la materia prima non e’ più il ferro o la pietra, ma e’ costituita dai bit senza peso.

Purtroppo egli visse in anni in cui questa integrazione non era ancora  tecnicamente possibile e questo spiega la separatezza dell’iniziativa elettronica rispetto al corpo storico della Olivetti. Ma certamente, se fosse sopravvissuto, ne avrebbe promossa l’integrazione e l’amalgamazione, rendendo impossibile l’improvvida alienazione fatta dai suoi miopi successori.

I primi anni 60 avrebbero potuto così essere gli anni dell’integrazione culturale, che avrebbe comportato automaticamente l’orientamento dei progetti elettronici verso prodotti più vicini agli interessi fondamentali dell’Olivetti, come le tecnologie cominciavano a rendere possibile e come la Programma 101 dimostrò coi fatti. Adriano soltanto avrebbe avuto l’autorità’ e il carisma necessari per promuovere una operazione così complessa, che avrebbe dovuto passare attraverso il superamento di tanti interessi di parrocchia e di potere.

Se questo si fosse verificato, la Olivetti avrebbe avuto in mano le chiavi per aprire, prima di ogni altra azienda, le porte del nuovo mondo dell’informatica distribuita, democratica e a misura d’uomo. Purtroppo il destino volle che egli morisse alle soglie della rivoluzione microelettronica, e che il sogno che certamente ebbe non si traducesse in realtà.

Il cambio del vertice e la ricostruzione tardiva.

Nel 1966 vennero prodotte oltre 2000 Programma 101, delle quali il 90% fu venduto all’estero, specialmente negli Stati Uniti. Il prezzo di vendita era stato fissato in 3200 dollari in America e in circa due milioni in Italia. Inoltre la produzione era in rapidissima salita.

Ma al di là di queste cifre, due fattori giocarono un ruolo molto importante per le decisioni che di li a poco sarebbero state prese. Il primo fu la facilità con la quale la macchina veniva venduta, e per giunta proprio nei paesi più avanzati dove la concorrenza era sempre stata fortissima e l’organizzazione commerciale della Olivetti meno potente. Si può dire che più che venduta veniva risucchiata dal mercato; e questo per il personale di vendita, abituato a sudare sette camicie per vendere un prodotto tradizionale, risultò un fatto assolutamente imprevisto e piacevole.

Il secondo fattore fu la relativa facilità con la quale si riuscì ad avviare la produzione, dopo la risoluzione dei problemi iniziali. In Olivetti l’avviamento di un nuovo prodotto era sempre stato un processo sofferto, come un parto, dovuto sia alla complessità intrinseca della tecnologia meccanica, sia anche a una struttura organizzativa molto formale e burocratica, che prevedeva l’intervento di una quantità di enti, che si interponevano tra l’ufficio progetti e la fabbrica, per adattare il prodotto alle esigenze produttive, per progettare e costruire le attrezzature, per definire i tempi e i metodi di produzione, e anche per il gusto della contestazione e della polemica, sulle differenti ” ideologie ” tecniche dei responsabili coinvolti.

Nel caso della Programma 101, paradossalmente, tutto questo non si verificò. Dato che i responsabili della produzione non avevano alcuna competenza in materia e sopratutto non pretendevano di averla, il dialogo con i progettisti fu estremamente più chiaro e diretto, con una nettissima divisione di responsabilità. Quindi, non appena superata la fase iniziale di reverenziale timore per il nuovo e l’ignoto, le preoccupazioni si trasformarono in entusiasmo, in voglia di fare di più e presto.

Inoltre il drammatico confronto coi gravi problemi della Logos 27 aveva diffuso rapidamente nell’intera organizzazione il senso che la meccanica era ormai alla fine del suo ciclo storico e che quelle politiche conservative, già viste come espressione di prudenza e di ponderatezza, ora potevano diventare fonte di irrimediabili disastri.

Anche la concorrenza si stava facendo sempre più intraprendente ed aggressiva e cominciava a determinare consistenti flessioni proprio di quei prodotti di successo che erano stati la bandiera dell’Olivetti, come la Divisumma 24. Tra il 65 e il 66 la produzione di questa macchina passò da oltre 94.000 unità a circa 69.000, con una riduzione di  quasi il 30%. La rivoluzione microelettronica stava cominciando a farsi sentire e venivano attaccate ed erose, con calcolatrici elettroniche prodotte da vari fornitori, le fasce centrali del fatturato.

Le sorgenti tradizionali della prosperità aziendale cominciavano a prosciugarsi, ma la Olivetti non sembrava in grado di ideare un strategia alternativa, e dava a tutti gli osservatori la sensazione di essere ormai su un binario morto.

Per fronteggiare la situazione, si fece un primo timido tentativo di cambiamento. La organizzazione divisionale, che vedeva, accanto alla piccola e povera  Divisione sistemi, la pletorica Divisione prodotti per ufficio ( che concentrava il 90% delle risorse aziendali e che era rimasta l’ultima roccaforte della meccanica ) venne mutata in una organizzazione funzionale. Vennero costituiti il Gruppo ricerca e sviluppo, il Gruppo

fabbricazione e il Gruppo tecnico-commerciale, dando l’avvio a una delle tante periodiche alternanze di tipo organizzativo, che segneranno la storia futura della Olivetti. A capo della ricerca e sviluppo venne posto Roberto Olivetti.

Ma si trattava palesemente di un palliativo, che non poteva risolvere i problemi di fondo, ne’ sanare quei contrasti che erano alla base di due radicalmente diverse concezioni dello sviluppo, l’una tesa a conservare fino all’estremo lo status quo, limitandosi a fare, trascinata dagli eventi, solo le minime concessioni al nuovo, l’altra, che si imponeva sempre di più, di progettare un scenario rivoluzionario e ricuperare il tempo perduto. Ma il tempo ormai giocava a favore di un più radicale cambiamento, che anche agli occhi del pur cautissimo presidente, non era più procrastinabile. Agli inizi del 1967, il dottor Peccei venne esonerato dalla carica di amministratore delegato e al suo posto vennero nominati Roberto Olivetti e Bruno Jarach.

Anche qui non si volle adottare con coraggio una soluzione chiara e netta. Lo sdoppiamento della responsabilità di amministratore delegato suscitò notevoli  perplessità, e venne dai più interpretata come la politica del freno e dell’acceleratore. In altre parole, tutti ritennero che Visentini avesse voluto temperare le qualità di un Roberto, avvenirista e non sufficientemente coi piedi per terra, con le caratteristiche di solido e posato amministratore di Jarach. La media aritmetica dei due avrebbe dovuto generare l’optimum.

Nel giudicare l’opera di Peccei, che può essere considerata molto negativamente nella prospettiva di chi guarda le cose 25 anni dopo, bisogna però tenere conto del fatto che egli venne spedito in Olivetti nel 1964 con una missione ben precisa, che derivava dalla arretratezza della cultura industriale italiana di quegli anni, ben espressa dai capi dei gruppi che intervennero nell’Olivetti. E questo e’ confermato da quanto lo stesso Peccei raccontò: ” In effetti a decidere l’amputazione furono questi gruppi. Con la decisione, che mi trovò peraltro pienamente concorde, io però non c’entro: quando divenni amministratore delegato l’accordo in linea di principio, era infatti già raggiunto “. E richiesto del perché di una tale decisione, aggiunse: ” Perché la Divisione elettronica e le sue attività erano al di là delle capacità e delle competenze dei dirigenti italiani “. Questo era purtroppo il substrato culturale nel quale la infausta decisione maturò, una cultura della rinuncia e della paura del nuovo !

Nell’aprile del 1967 io venni nominato direttore generale del Gruppo ricerca e sviluppo, sostituendo Roberto Olivetti. Esattamente 10 anni erano passati dal mio ingresso nel laboratorio di Pisa. Allora sognavo di progettare meravigliosi cervelli elettronici e macchine da fantascienza. Ora si trattava di progettare e ricostruire più che delle macchine un intero gruppo industriale.

L’inventario delle risorse disponibili in ditta fu una delle prime cose che facemmo e le risultanze furono estremamente preoccupanti. Il Gruppo ricerca e sviluppo, che aveva la responsabilità di tutti i progetti e delle ricerche e che comprendeva circa un migliaio di persone, era paurosamente carente di personale elettronico. Anche nel campo meccanico mancavano quelle competenze che servivano a fare i dispositivi periferici dei calcolatori elettronici, come stampanti, unità a nastro magnetico, lettori di caratteri, e così via. La meccanica della lamiera, inventata da Capellaro, in questi campi non serviva.

La Olivetti stava inoltre perdendo posizioni su posizioni nel settore delle macchine da calcolo, che era quello portante, ed il mercato cominciava ad essere invaso da calcolatrici elettroniche a basso prezzo. Non solo, ma l’elettronica cominciava a dilagare anche nel settore delle macchine contabili, dei sistemi di scrittura, delle fatturatrici. Era un attacco in piena regola su tutti i fronti, si salvavano solo le macchine per scrivere dove la meccanica continuava a reggere.

Fu necessario adottare un strategia di emergenza che vide il Gruppo ricerca e sviluppo impegnato su due fronti. Da una parte si dovette derivare dalla Programma 101 tutta una serie di prodotti, adattati alla meglio, per coprire aree di mercato rimaste pericolosamente scoperte, e dall’altra si avviò la costruzione di una struttura di progetti e di ricerche, capace di fronteggiare il nuovo vasto panorama dell’informatica distribuita.

Ma dove trovare le risorse umane per attuare un così ambizioso programma di ricostruzione e di ricupero ? Non si poteva certo limitarsi ad assumere giovani neolaureati o neodiplomati, che avrebbero richiesto tempi lunghi per la loro formazione e l’acquisizione della esperienza necessaria; e tempo da perdere proprio non ce n’era. Bisognava ricorrere a massicce iniezioni di persone esperte in elettronica ed informatica e in Italia vi era un unico grande serbatoio di uomini e donne dal quale si  potesse attingere, quello di Pregnana. E il cuore di tutte queste persone, malgrado lo schiaffo della vendita agli americani, era rimasto con la Olivetti.

Cominciò allora una biblica trasmigrazione di progettisti elettronici, di ricercatori, di esperti di software, di progettisti di unità periferiche, dalla ex Divisione elettronica verso la Olivetti, favorita dal perdurare della crisi della OGE e dalle incertezze strategiche della General Electric, che nel 1970 getterà la spugna ed uscirà definitivamente dal settore informatico.

Con queste risorse umane si creerà quella integrazione tra elettronica e meccanica e quel rinnovamento che era stata la ragione profonda dell’iniziativa avviata 12 anni prima da Adriano. Purtroppo però ora il vantaggio sul tempo era scomparso, e il problema era quello di inseguire un mercato che stava per sfuggire di mano. Almeno cinque anni si dovevano considerare persi, e, in un settore che già allora si muoveva con una rapidità incredibile, si trattava di un divario estremamente pesante.

Per fortuna, lo spirito di rivincita che animò tutte le persone che confluirono nella ricerca e sviluppo, consentì un ricupero eccezionale. A partire dal 1969, il ritmo di avviamento di nuovi prodotti si assestò ad un livello estremamente alto e coi primi anni

70 la grande conversione del gruppo Olivetti in una vera azienda elettronica si poté considerare conclusa. L’azienda era ritornata ad essere competitiva, i prodotti di avanguardia non erano più delle eccezioni, ma il frutto di una capacità progettuale e creativa diffusa.

Ma non e’ intenzione di questo libro raccontare la storia della Olivetti in quegli anni.

Non possiamo però esimerci dal ricordare che nel 1978 il Gruppo ricerca e sviluppo seppe rinnovare il clima eroico della Programma 101, mettendo sul mercato la prima macchina per scrivere elettronica del mondo, la ET 101; e il numero ” uan-o-uan ” portò ancora una volta fortuna, perché si dovette alla priorità di uscita di tale macchina  se la Olivetti riuscirà a mantenere negli anni 80 un ruolo di leader nel mercato dell’office automation [3].

Nel 1978 la storia del Gruppo ricerca e sviluppo si chiuse e la Olivetti tornò ad una organizzazione di tipo divisionale, che in un certo senso ricordò quella attuata nel 1966, dopo la presentazione della Programma 101. Corsi e ricorsi della storia ! Ma ora le parti erano invertite, la nuova divisione che si occupava di informatica distribuita non era più  la Cenerentola, come la Divisione sistemi di Roberto Olivetti di allora, ma comprendeva la maggior parte delle risorse aziendali e contribuiva per più del cinquanta per cento al fatturato complessivo dell’azienda.

Mi preme ricordare i nomi dei valorosi progettisti del Gruppo ricerca e sviluppo, che diressero i gruppi di progetto della ET 101. L’ingegner Gian Luigi Ponzano e l’ingegner Filippo Demonte, rispettivamente per la parte meccanica e per la elettronica e la logica.

Nello stesso anno l’ingegner Carlo De Benedetti assunse la guida della Olivetti e diede inizio ad un periodo di ulteriore espansione , riuscendo nel modo più efficace a valorizzare le grandi risorse intellettuali e tecnologiche dell’azienda. Ancora una volta la Olivetti riuscirà a proiettare nel panorama conservatore dell’industria italiana una immagine di azienda innovativa e diversa, in grado di competere in uno scenario internazionale eccezionalmente vivace.

Tali vicende fanno ormai parte della storia recente dell’industria del nostro paese, e sono state sempre puntualmente ricordate dalla stampa, che non ha mai mancato di sottolineare l’importanza in un paese moderno di una forte industria informatica. Pertanto per conoscerle più che un libro servono i giornali.

Il libro serve però a ricordare che se nel lontano 1965, alla fiera di New York, non si fosse formata quella coda di gente stupita davanti al piccolo box della Programma 101, forse oggi non ci sarebbe più un’industria informatica in Italia.

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