PROGRAMMA 101:Capitolo terzo – Una piccola grande idea

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  • Le catene del grande calcolatore.

Lo stato delle tecnologie elettroniche all’inizio degli anni 60 non era certo paragonabile a quello a cui oggi siamo abituati. La rivoluzione della microelettronica era ancora tutta di là da venire.

Soltanto a partire dal 1958 i tubi a vuoto, le valvole, ingombranti, costosi e dissipatori di calore, avevano cominciato ad essere sostituiti dai transistor. Questi dispositivi, inventati negli anni 40 nei laboratori della Bell, cominciarono a diventare convenienti nel 1956, quando il governo federale ordinò a questa azienda di rinunciare alle royalty e di cedere i propri brevetti. L’installazione di un calcolatore elettronico richiedeva una grande sala condizionata per smaltire il calore e l’assistenza continua di tecnici specializzati pronti ad intervenire, in quanto la frequenza dei guasti era molto  alta: difficilmente si riusciva a funzionare senza guasti per più di qualche ora.

Inoltre i calcolatori richiedevano un linguaggio specializzato e una conoscenza dettagliata della loro organizzazione logica, per cui per utilizzarli occorreva tradurre il problema da risolvere in un programma dettagliato, costituito da una sequenza di istruzioni elementari. Questa necessità aveva determinato la nascita di una nuova professione, quella dei programmatori, che fungevano da intermediari tra gli utenti finali e la macchina. Più tardi si coniarono i neologismi ” software ” e ” softwaristi ” , ormai diventati di uso comune, per designare rispettivamente i programmi e i programmatori.

L’introduzione dei transistor diede l’avvio alla seconda generazione di calcolatori elettronici e rese le macchine più affidabili e in pratica commercialmente utilizzabili con un minimo di praticità, però non tolse al calcolatore il carattere di grande moloch, posto in un centro di calcolo assistito da tecnici in camice bianco, inaccessibile e lontano dagli utenti.

Già l’Elea 9003, il calcolatore sviluppato dalla Divisione elettronica della Olivetti, utilizzava i transistor, e questo dimostra che l’azienda era riuscita a tenersi al passo con l’evoluzione delle tecnologie, restava però un incolmabile divario tra il mondo dei calcolatori elettronici e i prodotti che popolavano gli uffici, utilizzati direttamente dagli impiegati, dai tecnici, dagli scienziati, ossia le calcolatrici a quattro operazioni, le macchine per scrivere, le macchine contabili e similari. La lingua italiana riservò il genere femminile per designare le macchine usate direttamente dai comuni mortali e il genere maschile per le grandi macchine elettroniche: con questa distinzione si volle inconsapevolmente accentuare il divario di gradevolezza tra le prime e i secondi !

Obiettivamente programmare un calcolatore era uno dei lavori più noiosi e farraginosi che si potessero immaginare, in quanto allora non erano ancora stati inventati linguaggi più gradevoli dei cosiddetti ” linguaggi macchina “, che obbligavano ad una minuziosa specificazione di ogni minima operazione elementare, perché il calcolatore, tanto solerte quanto poco intelligente, sapeva comprendere solo questi. Purtroppo il calcolatore richiedeva un altro tipo di lavoro, tutt’altro che entusiasmante, la compilazione delle schede perforate, che erano gli unici documenti che sapeva leggere. E queste schede dovevano essere prodotte da impiegati specializzati, che a legioni  avevano cominciato a popolare gli uffici.

Costruendo, alla fine degli anni 50, macchine contabili in grado di perforare un nastro di carta in codice, la Olivetti aveva cercato di gettare un ponte tra il centro di calcolo e la periferia, dove essa era leader, ma più in là per il momento non si era andati. Il convertitore nastro-schede, di cui io mi ero occupato subito dopo il mio arrivo in Olivetti, aveva proprio lo scopo di eliminare il noiosissimo lavoro di compilazione manuale delle schede, ma la diffusione di questi sistemi era rimasta limitata e comunque richiedeva una complessa organizzazione.

In sostanza il panorama del mondo del calcolo e del lavoro d’ufficio era ancora quello di un regime di asservimento e di schiavitù alle innaturali leggi dettate dallamacchine. L’uomo, liberato dalla fatica fisica, non aveva ancora trovato il modo di liberarsi dalla routine di lavori immateriali opprimenti e grigi, assai poco piacevoli.

Le tortuose vie dell’innovazione.

Avevo avuto modo di sperimentare direttamente quanto ingrato fosse il lavoro di chi deve sviluppare applicazioni di calcolo, quando, subito dopo la laurea, lavorai come ricercatore al Politecnico di Torino. Ero allora assistente del professor Carlo Ferrari, luminare nel campo dell’aerodinamica e della gasdinamica, e professore ordinario di meccanica razionale . Il gruppo di ricercatori di cui facevo parte stava sviluppando alcune teorie avanzate per spiegare i comportamenti delle superfici portanti degli aeromobili in regimi prossimi alla velocità del suono. Era l’epoca nella quale cominciavano a  diffondersi, anche per usi civili, aeroplani che dovevano attraversare la velocità del suono, e quindi le ricerche in questo campo erano di gran moda.

I calcoli da sviluppare erano di grande complessità e sopratutto richiedevano una continua interattività tra l’uomo e la macchina; per questa ragione i tentativi fatti di utilizzare un centro di calcolo erano risultati assolutamente deludenti. Il processo richiedeva un continuo lavoro di tentativi e verifiche, che era in netto contrasto con la necessità di trasferire al centro una richiesta di elaborazione predefinita. La soluzione adottata fu quella, molto più casalinga ma obbligata, di dotarci delle più sofisticate calcolatrici meccaniche e di impegnarci direttamente a fare i calcoli. Ma la cosa più stressante non fu solo la natura routinaria del lavoro ma anche la perenne incertezza circa la correttezza o meno dei risultati. La mancanza di un programma automatico, la necessità di introdurre manualmente i dati e di ripetere ossessivamente procedure tutte uguali, le possibili dimenticanze o distrazioni, ci portavano a sognare come liberatorio qualsiasi tipo di faticoso lavoro muscolare !

Mi auguro vivamente che le ricerche del professor Ferrari non siano state compromesse dalle mie insufficienze come calcolatore, però quell’esperienza e altre analoghe ( che credo siano state condivise da masse di persone della presente e delle passate generazioni ) mi sono rimaste impresse, e mi lasciarono nella mente un segno che non dimenticai, quando mi trovai nella condizione di studiare possibili soluzioni del problema.

D’altra parte lo sviluppo delle tecnologie e’ sempre accompagnato, non solo dagli effetti positivi che queste determinano, ma anche da una serie di discrasie e inconvenienti, di solito inconsciamente sopportati come fatti ineluttabili. Ebbene, gran parte dei germi che generano innovazione si collocano proprio lungo il percorso mentale di chi non riesce ad accettarli e a familiarizzarsi con essi. Inoltre questo tipo di innovazione non e’ il frutto spontaneo o automatico dello sviluppo tecnologico, ma e’ piuttosto il frutto di un fenomeno di fecondazione incrociata tra mondo delle tecnologie e mondo delle applicazioni.

Purtroppo in quegli anni poche aziende e pochi progettisti si preoccupavano dei problemi degli utenti e della facilità e praticità d’uso delle macchine. D’altra parte le tecnologie degli anni 60 erano ancora molto limitate, e la preoccupazione principale dei progettisti era tutta concentrata sui problemi di puro e semplice funzionamento. Era l’uomo che doveva adattarsi alla macchina e non viceversa.

All’elettronica dei calcolatori si chiedevano prestazioni di tipo quantitativo, tanta potenza  di elaborazione, tanta capacità di memoria, elevata velocità di stampa dei dati,  e nulla poteva essere sprecato per migliorare il rapporto con l’uomo, che peraltro era sempre un tecnico specializzato. Anche le tecnologie dimostravano una tendenza evolutiva verso una crescita delle potenzialità, ma non fornivano molti appigli a chi avesse voluto rendere il calcolatore più amichevole e facile da usare.

Esisteva poi un problema culturale. Gli specialisti di elettronica e di informatica erano pochi; essi conoscevano le tecnologie ma ignoravano in genere il mondo e i problemi delle applicazioni. Inversamente gli utenti non potevano conoscere l’elettronica ne’ tanto meno l’informatica; e tra i due mondi fino a pochi anni fa esisteva una barriera di incomunicabilità che costituiva un ostacolo non piccolo al progresso e alla diffusione dell’informatica.

Le prime applicazioni dell’elettronica nel campo delle piccole calcolatrici da tavolo, infatti, furono rappresentate da macchine che riproducevano con la nuova tecnologia gli stessi tipi di prestazioni delle tradizionali calcolatrici meccaniche, con costi più elevati e molto maggiore fragilità di funzionamento. Le loro deludenti prestazioni in un certo senso rafforzarono la convinzione di coloro che erano sostenitori della tesi che per lunghi anni il calcolo meccanico sarebbe stato dominante negli uffici.

L’idea del computer personale.

Tra la fine del 62 e gli inizi del 64 venne a prendere forma nella mia mente non tanto una soluzione, quanto un sogno; il sogno di una macchina nella quale non venisse solamente privilegiata la velocità o la potenza, ma piuttosto l’autonomia funzionale, che fosse in grado non solo di compiere calcoli complessi, quanto di gestire in modo automatico l’intero procedimento di elaborazione, però sotto il controllo diretto dell’uomo. Ma l’idea non era tanto di immaginare un automatismo totale, quanto una macchina amichevole alla quale delegare quelle operazioni che l’uomo fa male o che sono fonte di fatica mentale e di errori, come l’introduzione e l’estrazione dei dati e la ripetizione di procedure di calcolo. Sognavo una macchina che sapesse imparare e poi eseguire docilmente, che consentisse di immagazzinare istruzioni e dati, ma nella quale le istruzioni fossero semplici ed intuitive, il cui uso fosse alla portata di tutti e non solo di pochi specialisti. Perché questo fosse realizzabile, essa doveva sopratutto costare poco e non essere di dimensioni diverse dagli altri prodotti per l’ufficio, ai quali la gente si era da tempo abituata.

Disgraziatamente una simile macchina non esisteva e le tecnologie non sembravano offrire soluzioni praticabili.

Mi convinsi anche che nella situazione in cui si trovava il mio gruppo sarebbe stato controproducente parlarne, se prima non si fosse delineata un’ipotesi di soluzione. Il rischio di essere considerato un visionario era sempre molto alto in un ambiente già marchiato dall’accusa di scarsa concretezza.

Mi consultai coi più diretti collaboratori, l’ingegner Giovanni De Sandre e il perito Gastone Garziera, entrambi da poco in Olivetti ma subito rivelatisi bravissimi e sopratutto non tipi da spaventarsi di fronte alle difficoltà, e assumemmo la decisione di continuare sì le esplorazioni e gli studi di fattibilità, ma di puntare ad ogni costo al progetto finalizzato di  un prodotto rivoluzionario. Solo mettendo sul tavolo un prodotto  di quel tipo si sarebbe potuto convincere la direzione dell’azienda della sua fattibilità. Ogni altra considerazione sarebbe stata inutile.

In certi momenti critici della vita o della carriera la decisione più folle finisce con l’essere quella più conservativa; e forse più che il raziocinio e’ l’istinto a suggerirla. Questo dovette essere proprio il nostro caso. Il non avere più nulla da perdere fa prendere molte volte la strada giusta.

Purtroppo non si trattava soltanto di prendere la decisione di fare la macchina, ma bisognava anche costruirla e farla funzionare !

Alcune idee erano maturate sia sull’organizzazione logica della macchina, sia sulle tecnologie da utilizzare o da mettere a punto. Ad esempio, per l’ingresso e l’uscita dei dati, pensai ad una cartolina magnetica, che poteva fungere anche come memoria permanente o archivio di dati. E’ stata l’antesignana degli attuali dischetti o floppy-disk. Per la componentistica fu necessario ricorrere ai transistor, perché i circuiti integrati nel 1964 erano ancora oggetti sperimentali, fragili e carissimi. Ma pensai a un sistema di montaggio automatizzato che dette luogo a dei gruppi elementari, i ” micromoduli “, che furono poi coperti da brevetto.

I problemi ancora non risolti erano la memoria dinamica e gli organi di stampa, senza contare la organizzazione fisico-strutturale della macchina.

Le memorie a semiconduttore, con le quali oggi si realizzano per pochi dollari qualche milione di bit per componente, erano di là da venire. La tecnologia corrente era quella delle memorie a nuclei magnetici di ferrite, strani dispositivi a metà strada tra una collana e un tessuto, ma anch’esse di costo proibitivo. Pensammo a un componente, che in forma alquanto diversa era stato usato su alcune apparecchiature speciali: la linea magnetostrittiva, un dispositivo nel quale l’informazione si conserva dinamicamente circolando lungo un anello di un opportuno materiale trasmissivo . Ci venne l’idea di utilizzare un filo di acciaio per molle, che si rivelò adattissimo. Il componente, pur molto avanzato, venne così realizzato utilizzando tecnologie di tipo meccanico; non male dovendolo produrre in Olivetti.

Per la stampa, dovetti fare ricorso alle mie conoscenze della geografia organizzativa del gruppo Olivetti. Avevo, nel primo capitolo, fatto cenno alla strategia di Adriano di costituire gruppi di progetto separati operanti in autonomia e anche in una certa concorrenza tra loro. Ebbene di uno di questi gruppi, che aveva lavorato sulle stampanti per applicazioni alle macchine per scrivere, esisteva ancora qualche traccia, ma era in fase di smobilizzo. Il progettista, Franco Bretti, era entrato in collisione ” ideologica ” coi progettisti-inventori del Centro Studi ed era stato esiliato a Caluso. Incontrai Bretti verso la fine del 63 e ci intendemmo perfettamente; la sfida del computer personale lo entusiasmò e, senza esitazione, volle essere dei nostri. Stampante e tastiera della futura macchina saranno opera sua.

Restava l’organizzazione strutturale della macchina, con i problemi delle piastre destinate a sostenere i circuiti elettronici, dell’impianto elettrico, dell’alimentatore, ed un’infinita’ di altre cose. Tutto quanto doveva stare in spazi ridottissimi e si profilavano problemi mai affrontati prima. Qui mi valsi dell’apertura di credito avuta dall’ingegner Capellaro, e stabilii una collaborazione con un altro espertissimo e creativo tecnico di Ivrea, l’ingegner Edoardo Ecclesia, che era responsabile del progetto della struttura elettrica dei prodotti Olivetti. Anche con Ecclesia e il suo gruppo si stabilì una collaborazione stupenda, che portò, tra l’altro ad introdurre in Italia una tecnologia innovativa per i circuiti stampati di alta complessità, che venne poi trasferita alla Zincocelere, consociata specializzata dell’Olivetti per questi componenti.

Il panorama delle tecnologie introdotte sulla macchina può certamente stupire qualunque tecnico di oggi, abituato a disporre di microprocessori potentissimi, memorie a semiconduttore di milioni di caratteri, dischi magnetici grandi come un pacchetto di sigarette e capaci di contenere l’intera enciclopedia Treccani[1] , stampanti velocissime e di qualità da libro stampato. Ma nulla di tutto questo era disponibile allora. Basti pensare che uno dei calcolatori elettronici più diffusi ai primi anni 60, l’IBM 650, aveva un memoria a tamburo magnetico di circa un milione di caratteri grande come un barile di birra, e la sua potenza non era neppure paragonabile a quella di un personal computer di oggi, pur occupando un intero stanzone !

Ma la componente più affascinante del mio lavoro fu il delinearsi dell’idea di una macchina che non esisteva e che doveva essere completamente modellata, nelle sue prestazioni, nella sua ergonomia, nel suo linguaggio. Nel progettare questi aspetti, memore del mio frustrante lavoro di alcuni anni prima e di quello di tanti ricercatori impegnati a fare calcoli, avevo l’impressione che mi fosse riservata la opportunità di far finalmente crollare barriere secolari, di spezzare antiche catene che rendevano l’uomo schiavo.

La creazione del linguaggio, ossia del sistema di programmazione, fu la parte più delicata. Non era possibile certo prendere a modello i linguaggi-macchina dei calcolatori esistenti, che non potevano essere usati dagli utenti non specialisti ai quali pensavamo di indirizzare il prodotto. Dovevamo inventarne uno nuovo. Provando e riprovando, venne fuori un semplicissimo sistema di sole 16 istruzioni, estremamente intuitive, con le quali compilare un programma equivaleva all’incirca a scrivere  la formula matematica delle operazioni da eseguire. Una specie di ” Basic ” ante litteram.

Lo stato di grazia e quasi di fanatismo nel quale ci trovavamo, se ci aveva fatto dimenticare le miserie della nostra situazione organizzativa aziendale, non ci aveva però consentito di trascurare i problemi realizzativi e tecnici. Se non fossimo riusciti a risolverli, tutti i nostri sogni sarebbero miseramente crollati; e si trattava di fior di problemi, perché noi eravamo assolutamente decisi non a presentare un modello di fattibilità da laboratorio, ma un oggetto da produzione di serie. E per giunta da produrre

In una azienda che si era privata completamente di qualsiasi capacità nel campo elettronico.

Non voglio ora raccontare la cronaca di quei mesi di lavoro, ne’ ricordare le difficoltà , le frustrazioni , i momenti di sconforto, che sono facilmente immaginabili dal lettore. Importante e’ che arrivammo all’autunno del 1964 con la sensazione netta di avercela fatta. Non avevamo però mai visto funzionare la macchina tutta intera, ma solo le sue parti separatamente. E le persone impegnate nel progetto, tra quelle dirette di Pregnana e quelle amiche di Ivrea, costituivano una specie di organizzazione a rete, che sembrava involontariamente anticipare i più moderni dettami organizzativi, ma certo non facilitava l’integrazione.

Un certo giorno del novembre del 1964, caricai sull’automobile il gruppo elettronico ormai completato, grande poco più di una scatola da scarpe, che era stato realizzato a Pregnana, per portarlo ad Ivrea dove avevamo previsto di assemblare le varie parti della macchina. Non volevamo certo far vedere il nuovo prodotto alle persone della OGE, sia per ragioni di evidente riservatezza, sia per metterci al riparo dal rischio di un possibile plateale fallimento. Durante il viaggio ero un po’ in ansia, anche perché mi erano giunte voci che da parte dei collaboratori-amici di Ivrea si esprimeva qualche sia pur benevolo scetticismo circa la funzionalità della macchina, alla quale, in attesa di un battesimo ufficiale, era stato posto il nome di ” Perottina “.

La macchina fu rapidamente assemblata in alcuni locali dello stabilimento di San Lorenzo di Ivrea, che avevamo avuto in prestito, e dopo pochi giorni di messa a punto cominciò regolarmente a funzionare. Per la occasione avevo preparato alcuni programmi aventi un forte valore dimostrativo, attraverso i quali, introdotta la cartolina magnetica e pochi dati di ingresso, si otteneva una lunga striscia di carta piena di risultati.

I bravi meccanici di Ivrea prepararono una carrozzeria di lamiera, con la quale rivestimmo gli organi interni della Perottina e la verniciammo di un bel colore blu.

Il primo personal computer della storia del calcolo era nato. Ma davanti a noi la strada da percorrere era ancora molto lunga e piena di difficoltà.

Le prime reazioni olivettiane.

La prima persona alla quale pensai di far vedere la macchina fu Natale Capellaro. Lo accompagnai a San Lorenzo pochi giorni dopo l’assemblaggio, e, dopo avergli descritto il funzionamento, cominciai a dimostrargli alcuni dei programmi che avevamo provato nei giorni precedenti. In particolare dimostrammo alcuni calcoli che venivano più frequentemente fatti negli uffici con sequenze manuali con la Divisumma 24 e che la macchina realizzò automaticamente, stampando con grande velocità lunghe sequenze di risultati.

Capellaro osservò con grande attenzione le fasi del lavoro, accarezzò la macchina delicatamente, come se volesse sentirne palpitare i meccanismi sotto le sue dita sensibili di progettista, e restò a lungo in silenzio, come assorto. Quando si riprese, mi batté una mano sulla spalla e disse: ” caro Perotto, vedendo funzionare questa macchina, mi rendo conto che l’era della meccanica e’ finita “.

Fu poi la volta di Roberto Olivetti, che avevamo tenuto un po’ all’oscuro negli ultimi mesi degli effettivi orientamenti del nostro lavoro. Anch’egli rimase colpito dalle prestazioni della macchina, volle provare ad usarla con le sue mani, ma con mio disappunto, non sembrò particolarmente soddisfatto. Si informò di chi aveva disegnato la carrozzeria e quando seppe che era stata costruita in fretta e furia in laboratorio, storse la bocca e disse che bisognava incaricare qualche architetto di fama per disegnare la versione definitiva. A questo proposito devo premettere che, se la carrozzeria era stata realizzata come un prototipo provvisorio, tutta l’ergonomia del prodotto era stata invece curata come uno degli aspetti essenziali, e si era studiata una soluzione che consentiva all’operatore di gestire con grande comodità e piacevolezza tastiera, stampante, cartolina magnetica e tutti i comandi richiesti per il funzionamento.

Roberto decise subito dopo di incaricare del design l’architetto Marco Zanuso, che già aveva lavorato per la Olivetti progettando lo stabilimento di Scarmagno e altre cose. Non fu facile trasferire all’architetto le informazioni concernenti la filolosofia della macchina ed io ebbi la netta sensazione che non ci eravamo capiti.

Dopo alcuni tentativi iniziali che furono scartati dallo stesso Roberto, l’architetto arrivò a proporre una soluzione che ci lasciò costernati, ma che sembrò incontrare l’approvazione di Roberto. Il modello di legno che ci venne presentato rivoluzionava la struttura della macchina e consisteva in un parallelepipedo con, ad una estremità, una specie di testa girevole contenente stampante e tastiera. L’idea era di poter disporre di una soluzione bivalente, da tavolo con il parallelepipedo appoggiato orizzontalmente sul piano, ovvero da pavimento con lo stesso appoggiato verticalmente per terra, ruotando la testa di 90 gradi. Non mi sembrò francamente che la prestazione meritasse tutta la complicazione che la cosa comportava. Mi limitai ad obiettare che, quando era sul pavimento, la macchina non era stabile in quanto tutto il peso era posto nella testa e sarebbe caduta per terra. ” Niente paura- disse , pieno di risorse, l’architetto – basta mettere nel basamento pochi chili di piombo”.

Era veramente il colmo! Avevamo dovuto superare straordinarie difficoltà per fare una macchina rivoluzionaria, da tavolo, trasportabile e leggera, in netto contrasto con gli enormi calcolatori elettronici esistenti e ora ci veniva proposto di snaturare completamente il progetto. Purtroppo Roberto Olivetti non la pensava come noi e io dovetti rendermi conto che ci trovavamo di fronte ad una difficoltà assolutamente imprevista, perché non fu possibile farlo recedere dalla sua posizione.

Decisi di giocare di diplomazia e di metterlo di fronte al fatto compiuto. Nei progetti precedenti avevo avuto occasione di conoscere un giovane architetto, Mario Bellini, che faceva parte della squadra di Sottsass e che si era occupato di prodotti elettronici. Con lui ci intendemmo perfettamente, egli capì senza difficoltà la filosofia  della macchina e accettò di studiare una soluzione che non alterava la logica e l’impostazione ergonomica, che avevamo così approfonditamente studiato. Il progetto venne realizzato in veste prototipale in breve tempo. Il successivo show-down con Roberto Olivetti non fu tra le esperienze più piacevoli, ma c’era di mezzo la validità

stessa del prodotto e il successo di tutta l’operazione. Dichiarai senza mezzi termini che nessun’altra soluzione era tecnicamente fattibile e che le difficoltà che ancora dovevamo affrontare per risolvere tutti i problemi di affidabilità e di producibilità erano tali che sarebbe stato folle creare non necessarie e assurde complicazioni. In questo modo la soluzione Bellini passò. Devo ricordare a questo proposito che la Perottina venne negli anni successivi esposta al Museum of Modern Arts di New York, come esempio di eccellenza nel campo del disegno industriale. Dell’architetto Zanuso ci rimasero le salate parcelle presentate all’Olivetti per il tentativo di progetto non realizzato.

Nel frattempo la notizia della Perottina si era diffusa all’interno della Olivetti, pur avendo noi cercato di mantenere il massimo riserbo, anche perché la macchina mancava ancora di tutta la copertura brevettuale. Fui impressionato dalla emozione con la quale anziani progettisti, tecnici della produzione, commerciali, persone che avevano contribuito con il loro lavoro e la loro competenza a far grande la Olivetti, vennero a vedere la macchina, sentendo che con essa un’epoca si chiudeva. Molti si chiedevano quale sarebbe stato nel futuro il valore della loro professionalità accumulata in tanti anni; la elettronica spazzerà via tutto ?

Io ero profondamente contento che la macchina fosse il frutto del lavoro cooperativo di tanti tecnici con competenze diversificate, che avevano accettato di fornire il loro contributo in un clima di assoluto volontarismo e di assoluta libertà, attratti soltanto dal fascino di una idea. Ebbi vivissima la impressione che lo spirito di Adriano rivivesse in quel prodotto e che la Divisione elettronica da lui voluta non fosse stata venduta, ma si reincarnasse in tutti quei coraggiosi progettisti.

Nell’Olivetti e nel mondo.

La cosiddetta alta direzione apprese con relativa noncuranza delle vicende della Perottina. Il nucleo forte dell’azienda era completamente impegnato nella preparazione dei prodotti meccanici da presentare a New York nel prossimo ottobre, ai quali si destinavano miliardi e miliardi di investimenti e di risorse.

Noi non sapevamo quale sorte avrebbe avuto la macchina, perché i pareri dei benpensanti olivettiani erano, come al solito, molto scettici.

La consorteria dei contabili-amministrativi ( quelli che gli americani chiamano con espressione molto azzeccata, i ” contafagioli ” ) e la cui voce era ovviamente molto ascoltata da Visentini, sostenevano che sarebbe costata troppo, e che mai con la Perottina si sarebbero potuti rinnovare i fasti della Divisumma 24, con un rapporto di 10  a 1 tra prezzo di vendita e costo industriale. Molti direttori di produzione temevano straordinarie difficoltà produttive, ma sopratutto importante era la voce degli uomini dell’assistenza tecnica, che disponeva di personale esclusivamente meccanico, abituato ad assistere e riparare le macchine con la pinza e il cacciavite.

Vi era infine la voce dei commerciali e degli uomini di marketing, i quali ragionavano più o meno come Don Ferrante, quello della peste del Manzoni. ” La Perottina -essi dicevano- non e’ ne’ un grande calcolatore elettronico, ne’ una calcolatrice da tavolo, e il suo mercato non esiste. Prova ne e’ che i concorrenti non hanno fatto nulla del genere “.

Ma la elettronica non era ferma nel mondo, e cominciavano ad essere presentate dei modelli di calcolatrici da tavolo fatti con tecnologie elettroniche. Queste macchine non erano concorrenziali della Perottina, ma avevano lo stesso livello di prestazioni delle calcolatrici meccaniche Olivetti, con il vantaggio della maggiore velocità e silenziosità. Il loro costo era ancora molto più elevato dei prodotti meccanici, ma i prezzi cominciavano a scendere, sopratutto sotto la spinta dei giapponesi, che, partiti con le radioline a transistor, cominciavano ad affrontare fasce di prodotti e di mercati più professionali.

Questa situazione non sembrava preoccupare più di tanto gli inossidabili difensori della tradizione e i nuovi capi che guidavano il gruppo. Però non si volle dare l’impressione che la Olivetti non esplorasse soluzioni innovative, e si decise di presentare alla mostra di New York, come puro modello dimostrativo, anche la nuova macchina, da mettere in una piccola saletta riservata. Sia pure dalla porta di servizio, la elettronica cominciava a farsi largo anche nella ultraconservatrice Olivetti.

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