Leggende Informatiche: Olivetti -Programma 101 Capitolo 1

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L’invenzione del personal computer: una storia appassionante mai raccontata PierGiorgio Perotto

Capitolo primo:    L’età’ dell’oro e la sua fine

  1. Introduzione.

Era un giorno di aprile del 1957. Con la mia 600, che era quanto mi era rimasto dei due anni passati alla Fiat, stavo andando da Torino a Pisa, dove l’Olivetti aveva aperto un laboratorio di ricerche avanzate nel campo dell’elettronica. Quando ero in Fiat di questo laboratorio si parlava come di una cosa mitica. D’altra parte in quegli anni tutto quanto riguardava l’Olivetti era mitico e avvolto da un alone di superiorità e di mistero, e io, che ero stato appena assunto attraverso una banalissima procedura avviata rispondendo ad un avviso sul giornale, cominciavo a sentire che la soddisfazione di aver trovato un nuovo lavoro si stava trasformando in ansia e preoccupazione a mano a mano che mi avvicinavo a Pisa.

I colloqui sostenuti in fase di selezione erano stati un po’ contrastati, tanto e’ vero che la lettera con la quale venivo assunto mi era arrivata come una sorpresa. I dirigenti che avevo incontrato mi erano sembrati persone di un altro mondo e sprizzavano alta cultura da tutti i pori ; il contrasto con gli uomini Fiat, tutto fabbrica e dialetto e con modi di fare un po’ caserecci, era stato abissale. Per giunta il direttore del laboratorio, l’ingegner Mario Tchou, che era figlio di un diplomatico cinese presso il Vaticano, dava l’impressione di coniugare alta tecnologia e cultura millenaria; e il clima del laboratorio, che avevo assaggiato durante una breve visita di qualche mese prima, ricordava quello di Los Alamos dove era stata costruita la bomba atomica.

Il laboratorio dell’Olivetti era situato in una villa nel quartiere di Barbaricina, ricco di verde, di case signorili e noto per le sue scuderie di cavalli da corsa. Nessuna targa o segno esteriore ne denunciavano al di fuori la natura. I personaggi che lavoravano nel laboratorio provenivano in buona parte dall’America e dall’Inghilterra e avevano lavorato nei centri di ricerca dove erano stati costruiti i primi calcolatori elettronici. Tutti, per una ragione o per l’altra, esibivano comportamenti classificabili nella categoria ” genio e sregolatezza “; alcuni circolavano su vecchie automobili degli anni 20 ricostruite, altri solo e rigorosamente su vecchie biciclette. Quasi tutti andavano in giro con abbigliamenti che definire trasandati o casual sarebbe stato riduttivo.

Io venni affidato alle cure di un simpatico ingegnere inglese, che si chiamava Martin Friedman, di solito abbigliato con una maglietta sbrindellata e coi pantaloni legati in vita con una corda, e il mio primo incarico fu di costruire con la lima ed il martello la consolle della Elea 9003, che era il calcolatore che il gruppo stava progettando. La cosa non sembrava particolarmente esaltante, ma la presi come una delle tante stranezze di quell’ambiente e anche un po’ come una provocazione, alla quale era meglio rispondere esibendo la praticaccia che mi ero fatta come radioamatore alcuni anni prima.

Un giorno Tchou mi sorprese mentre armeggiavo a dare gli ultimi ritocchi di vernice attorno alla consolle, e disse, bontà sua, che forse l’ingegner Perotto avrebbe potuto essere utilizzato meglio. Fu così che mi venne affidato il progetto di una piccola macchina elettronica che doveva servire a convertire i nastri perforati prodotti da una nuova generazione di macchine contabili meccaniche costruite ad Ivrea in schede perforate, per essere poi immesse in un calcolatore che le avrebbe elaborate.

Questo progetto mi permise di conoscere i progettisti della Olivetti che lavoravano ad Ivrea e di capire il clima di difficoltà e di tensione nel quale il laboratorio di Pisa era costretto ad operare. Mi resi conto che gli atteggiamenti informali e il vestire provocatoriamente trasandato erano soltanto una vernice esteriore, che nascondeva una tenace volontà di affermare valori diversi rispetto alla burocrazia e all’ordine un po’ teutonico della fabbrica piemontese.

La finezza e la diplomazia dell’ ingegner Tchou, che doveva barcamenarsi tra Ivrea e Pisa, parevano proprio le virtù più adatte in quella situazione, e cominciai a capire le ragioni della scelta di Adriano Olivetti che l’aveva scoperto; non a caso le intuizioni di Adriano, quando si trattava di scegliere le persone, facevano parte della leggenda.

La realtà infatti era che i ricercatori di Pisa erano malissimo tollerati  dall’establishment di Ivrea e considerati più o meno personaggi che andavano a caccia di farfalle e che, nella migliore della ipotesi, non avrebbero mai concluso nulla.

Tchou aveva quindi saggiamente suggerito che il laboratorio di Pisa realizzasse il dispositivo necessario per utilizzare i nastri perforati prodotti dalle macchine progettate a Ivrea, ossia il convertitore nastri-schede meccanografiche. Anche se questo progetto avrebbe distolto risorse dal progetto principale, che era ovviamente il calcolatore Elea 9003, l’obiettivo di guadagnarsi un minimo di considerazione da parte  del potente establishment eporediese meritava senz’altro di essere perseguito.

Anche se dovevo lavorare da solo, l’idea di essere responsabile in toto di un progetto mi diede una carica particolare e mi misi a lavorare con tutte le mie energie per raggiungere l’obiettivo di presentare il convertitore alla fiera di Milano del 1958. Col passare del tempo, visto che l’Elea non era pronta e il laboratorio continuava a dimostrare penuria di risultati tangibili, il progetto del convertitore da marginale finì col diventare essenziale per la credibilità di tutto il gruppo. Mi vennero affidati alcuni collaboratori e riuscimmo bene o male a mettere assieme un prototipo pochissimi giorni prima dell’apertura della fiera.

La macchina fisicamente c’era, anche se non sembrava avere per il momento nessuna intenzione di funzionare in modo decoroso. Organizzammo però ugualmente la spedizione a Milano, contando di farne la messa a punto lavorando di notte nei primi giorni della manifestazione. D’altra parte, dato che il prodotto del convertitore erano delle illeggibili schede perforate, chi mai avrebbe potuto accorgersi degli errori o delle disfunzioni ? Malgrado tutta l’improvvisazione con la quale era stata condotta , l’operazione ebbe successo e del convertitore nastro-schede si iniziò la produzione già nell’autunno del 1958, cosa che contribuì notevolmente a sostenere il vacillante prestigio della elettronica in ditta. La macchina, denominata poi CBS, acronimo di convertitore banda schede, fu il primo oggetto elettronico prodotto dalla Olivetti nella sua storia e sembrò poter spianare la strada a uno sviluppo di prodotti a tecnologia avanzata; ma il destino volle riservare una sorte molto più difficile del previsto alla nascente iniziativa dell’elettronica Olivetti.

La fine degli anni del miracolo.

La Olivetti occupava una posizione del tutto particolare nel panorama industriale italiano. Ma non soltanto perché, pur nell’epoca del miracolo economico, era riuscita ad inanellare per tanti anni ritmi di sviluppo eccezionali sui mercati di tutto il mondo. La ragione era sopratutto un’altra, e risiedeva in una miscela di tecnologia avanzata e illuminata conduzione aziendale, finalità sociali della fabbrica e apprezzamento della cultura, capacità di generare profitto al di fuori di ogni logica di sfruttamento della persona umana.

Già il fondatore, Camillo, socialista, impegnato politicamente, amico di Turati, aveva introdotto in Olivetti un programma di servizi sociali che precorreva i tempi e non aveva riscontro in nessun’altra azienda italiana. Egli era sopratutto sensibile all’arretratezza tecnica e sociale del sistema industriale italiano in rapporto agli altri  paesi europei e agli Stati Uniti, che aveva visitato fin dal 1892 assieme al fisico italiano Galileo Ferraris ( inventore del motore elettrico a campo rotante ) e approfonditamente studiato sotto il profilo tecnico, organizzativo, sociale. Camillo aveva avuto occasione di constatare come, a causa di tale arretratezza, in Italia tante capacità creative non riuscissero ad affermarsi e ad avere successo. Il caso sfortunato del novarese Giuseppe Ravizza, che intorno alla metà dell’ottocento aveva inventato il ” cembalo scrivano “, primo esempio di dispositivo meccanico per scrivere, senza riuscire ad affermare la priorità della propria invenzione, era da lui attribuito alla mancanza, nella classe dirigente italiana, di una mentalità industriale. In un convegno dove Camillo parlava di Ravizza e della sua invenzione, diceva: ” l’istruzione della nostra borghesia ha un fondamento prettamente anti-industriale. Noi siamo ancora i figli dei latini, che lasciarono ai servi e ai liberti i lavori industriali e che in ben poco conto li ritennero, tanto che ci tramandarono i nomi dei più mediocri proconsoli, e dei poetucoli ed istrioni che dilettarono la decadenza romana, ma non ci ricordarono neppure i nomi di quei sommi ingegneri che costruirono le strade, gli acquedotti e i grandi monumenti dell’Impero Romano “.

Però chi veramente incarnò, nel secondo dopoguerra, gli ideali che la azienda esprimeva fu il figlio, Adriano Olivetti, presidente dell’azienda dal 1938. Proprio in quell’anno Adriano scriveva: ” Può l’industria avere dei fini ? Vanno essi ricercati soltanto nell’entità’ dei profitti o non vi e’ nella vita della fabbrica anche un ideale, un destino, una vocazione ? “

Adriano non si limitò alle parole, ma tutta la politica Olivetti negli anni del dopoguerra fu improntata ad una ricerca incessante di modelli innovativi per la fabbrica e i suoi prodotti, che si ispirarono all’architettura, all’urbanistica, alla sociologia, alla pittura, alla letteratura, in una visione nella quale la fabbrica veniva concepita come strettamente integrata nella società civile e finalizzata ad elevarne il benessere e la qualità della vita.

Il giovane Olivetti aveva ereditato dal padre il rispetto per certi valori, come  la competenza tecnica, la professionalità, il gusto dell’innovazione, ma a questi aggiunse di suo una visione idealistica e forse utopica che lo spinsero incessantemente a sognare  e a progettare un futuro ricco di suggestioni estetiche, nel quale cultura tecnica e cultura umanistica potessero fondersi.

Fu certamente questa mentalità che portò Adriano a vedere nell’elettronica, prima di altri, una opportunità nuova, tale da costituire uno stimolo per una azienda che aveva sempre sviluppato tecnologie completamente meccaniche. Egli sosteneva che l’elettronica avrebbe potuto recare ” un contributo reale non soltanto allo sviluppo tecnologico e organizzativo del paese, ma anche al suo immancabile progresso sociale e umano “.

Si pensi che già fin dal 1952 egli aprì a New Canaan nel Connecticut un piccolo laboratorio con l’obiettivo di esplorare le possibili applicazioni dell’elettronica ai prodotti per l’ufficio e che il laboratorio di Pisa venne aperto tre anni dopo, nel 1955, sfruttando una opportunità di collaborazione con l’università’ che si rivelò assai proficua.

Si dice che, in occasione di una visita di Enrico Fermi in Italia nel 1949,  Adriano recepisse da lui il suggerimento di costruire presso l’istituto di fisica dell’Università’ di  Pisa un calcolatore elettronico. Alla iniziativa l’Olivetti contribuì inserendo un nucleo di progettisti presso l’istituto. Ma all’inizio del 55 percepì tempestivamente la diversità degli obiettivi tra università e industria e attuò quindi un progressivo disimpegno, costituendo il proprio laboratorio pisano. Con l’università’ si mantenne però un rapporto di collaborazione.

Anche nella creazione di questi gruppi di progettisti, Adriano anticipò una concezione dell’organizzazione che si sarebbe affermata e diffusa solo trent’anni più tardi. Egli era convinto che le strutture organizzative dovevano aiutare l’uomo nel processo creativo e non opprimerlo, e il piccolo gruppo, dotato di forte autonomia ma impegnato a generare innovazione senza eccessivi condizionamenti derivanti dalle strutture, era per lui la migliore espressione di tale idea.

Ma con la fine degli anni 50 una serie di drammatici eventi si abbatterono sulla Olivetti e segnarono la fine di un periodo leggendario e forse irripetibile.

Il primo e più grave di tutti fu la improvvisa morte di Adriano, avvenuta nel febbraio del 1960; il secondo fu la morte dell’ingegner Tchou in un incidente d’auto sull’autostrada Torino-Milano nel 1961; il terzo, il rallentamento dell’economia cominciato nel 1962 e sfociato nella crisi pesantissima degli anni 63-64, coi quali purtroppo si chiudeva per l’Italia il periodo del miracolo economico.

La scomparsa di Adriano mise in luce una situazione di strutturale fragilità dell’Olivetti, le cui azioni erano ancora per il 70% in mano agli eredi di Camillo, i quali a loro volta erano divisi in numerosi rami tra i quali concordia e solidarietà non erano le virtù principali. Il resto del capitale sociale era diviso tra dirigenti o persone in qualche modo legate alla famiglia e alla società. Ma tutti in una certa misura condividevano la perplessità e la preoccupazione per la politica e le idee di Adriano, considerate troppo avveniristiche e pericolose, forse con la sola eccezione del figlio Roberto, che era sempre stato dalla parte del padre e convinto sostenitore dello sviluppo della elettronica. Finché ci fu Adriano, la sua forte personalità, il suo carisma, e le indubbie doti imprenditoriali riuscirono a contenere e a nascondere contrasti e problemi, ma dopo non si riuscì più ad esprimere un vero leader, ne’ Roberto, che avrebbe potuto essere il continuatore della sua politica, ebbe mai la fiducia dei suoi stessi parenti.

Ad Adriano Olivetti successe quindi un presidente di transizione, Giuseppe Pero, un amministrativo della vecchia guardia estratto dai ranghi della dirigenza, con il vantaggio però di riuscire a mettere d’accordo i membri della litigiosa famiglia. A Roberto Olivetti venne riservato il posto di amministratore delegato, che dovette però dividere col cugino Camillo, e gli fu concesso pochissimo potere, in un regime più di occhiuta sorveglianza che di ragionevole autonomia.

La struttura di governo della azienda non risultò certamente al passo con la sua dimensione internazionale e con la vastità dei problemi da gestire. Alcuni osservatori definirono la Olivetti           ” una bottega multinazionale ” , e in effetti tutto era un po’ rimasto come ai tempi del fondatore, quando l’azienda aveva soltanto qualche centinaia di dipendenti. Purtroppo i membri della famiglia oltre a non andare d’accordo esibivano anche un altro difetto, assai grave per un’azienda a struttura ancora famigliare, quello di disporre di pochi quattrini da investire nella società. Gli aumenti di capitale avvenuti tra il 1958 e il 1964, da 10 a 60 miliardi, obbligarono gli azionisti della famiglia ad indebitarsi con le banche, dando come pegno le vecchie azioni.

C’erano purtroppo tutte le condizioni perché il rallentamento dei mercati bloccasse la corsa della macchina concepita da Adriano. Ma c’era di più: a partire dal settembre del 1959, la Olivetti aveva dato la scalata alla Underwood, colosso statunitense delle macchine per scrivere, nome prestigioso, ma purtroppo in gravi difficoltà finanziarie e con un struttura manageriale totalmente obsoleta. Quali le ragioni di tale investimento ? Evidentemente il desiderio di conquistare quote di mercato negli Stati Uniti attraverso una acquisizione, ma il conto fu salatissimo, certamente superiore ai 50 milioni di dollari ( di allora ) che vennero dichiarati.

Una delle cose più singolari nella storia dell’Olivetti di quegli anni fu che le due iniziative più impegnative sviluppate da Adriano, la creazione della divisione elettronica e l’acquisto della Underwood, vennero giudicate con criteri molto diversi dall’establishment industriale di allora. La prima venne generalmente considerata come espressione di megalomania se non di follia, mentre la seconda venne valutata con molta maggiore indulgenza. Eppure fu quest’ultima a rappresentare il vero disastro, perché il risanamento della Underwood poté ottenersi solamente, dopo infiniti sforzi, attraverso il suo azzeramento e la sua totale ricostruzione, con l’impegno delle migliori risorse manageriali della società. A sostenere l’ambiguità’ dei giudizi soccorre poi l’incredibile fatto che non fu mai calcolata o almeno resa pubblica l’entità’ vera degli investimenti resisi necessari per le due operazioni.

Ma e’ probabile che la responsabilità della operazione americana non fosse da attribuire solamente ad Adriano. Infatti in occasione del viaggio in USA per la  conclusione delle trattative, egli non si recò ad Hartford, nel Connecticut, dove la Underwood aveva i principali stabilimenti, ma delegò per la visita alcuni collaboratori. Solo successivamente, dopo la firma, quando poté vederli di persona, si rese conto della degradazione che la azienda aveva subito e della sua arretratezza, e si narra che esclamasse: ” mai avrei firmato un simile accordo se avessi visto questi muri  “.  In  realtà quando alcuni anni dopo io stesso passai da Hartford, mi meravigliai molto di vedere in America stabilimenti che sembravano un museo di archeologia industriale, cosa, devo dire, assai rara in quel paese.

A rendere più fosca l’atmosfera intervennero poi la morte di Tchou, che privò il laboratorio di un capo prestigioso, e la breve durata della presidenza di Pero, scomparso anch’egli nel novembre del 1963. Nello stesso tempo il titolo Olivetti franava in borsa. Da quota 11000 degli inizi 62 si era ridotto a poco più di 2900 lire dell’agosto 63, e la discesa sarebbe continuata nei mesi successivi per arrivare nel marzo del 64 a circa 1500 lire: un vero crollo, che sembrava sanzionare la fine di ogni sogno di gloria….

3 Nel frattempo, nel laboratorio elettronico…….

Dopo la presentazione del convertitore nastro-schede perforate e la sua messa in produzione, alla fiera di Milano del 59 venne presentato ufficialmente il prodotto principale del laboratorio, l’Elea 9003, un calcolatore completamente transistorizzato, al passo con le tecnologie elettroniche più avanzate; e poco dopo iniziarono le prime consegne in Italia.

Il laboratorio intanto si era trasferito a Borgolombardo, un brutto posto a sud di Milano, ed era diventato la Divisione elettronica della Olivetti. Tra di noi mormoravamo che l’abbandono di Pisa e la scelta di una così squallida localizzazione erano un po’ una vendetta di ” quelli di Ivrea ” e serviva a ricordarci che noi non eravamo lì per divertirci , ma per lavorare e produrre.

La stessa morte di Adriano, pur colta con costernazione da tutti noi, non interruppe le attività, che proseguirono secondo il programma che era stato formulato. L’idea strategica era quella di costruire una famiglia di calcolatori di fascia medio-alta attorno alla Elea 9003, progettando e realizzando anche tutto l’armamentario di unità accessorie e periferiche, stampanti, unità di memoria, convertitori, ecc..

Poche riflessioni erano state fatte per quanto concerne il mercato, che cominciò ad essere e rimase quello italiano, certamente insufficiente a sostenere la mole di investimenti necessari ad entrare in un settore come quello dei calcolatori elettronici.

Roberto Olivetti era l’unico rappresentante dell’alta direzione che seguiva con assiduità i nostri lavori. Anche dopo la morte del padre egli rimase il nostro riferimento, e in un certo senso contribuì a proteggere le attività dalla ridda di voci e di discussioni che mettevano in dubbio la validità della nostra esistenza. Per giunta egli era su per giù della nostra età, era sinceramente appassionato dei problemi dell’elettronica e delle nuove tecnologie, per cui si era creato tra di noi un clima di amicizia e di solidarietà, quasi da gruppo di cospiratori. D’altra parte il clima di incertezza che dominava le alte sfere della società non si trasferiva direttamente alle cose da farsi, perché nessuno aveva alla fine il coraggio o la capacità di decidere qualcosa di drastico. Pertanto senza nessuna convinzione ma per pura forza d’inerzia il programma dell’elettronica andava avanti.

Così nel 1962 il Laboratorio si trasferiva in una nuova area, alla periferia di Milano, Pregnana Milanese, le produzioni venivano collocate a Caluso vicino ad Ivrea, in via Pirelli a Milano venivano concentrati gli uffici commerciali. La morte di Adriano non aveva spento il virus dell’architettura, e per il progetto del nuovo comprensorio di Pregnana si fece ricorso, per iniziativa di Roberto, a Le Corbusier, il cui progetto però non venne mai realizzato. Il laboratorio si sistemò in edifici provvisori, che, ahimè, rimasero definitivi.

Anche la vendita dei calcolatori della serie Elea continuava. Alla fine del 64 ne erano stati venduti od affittati circa 170, arrivando a coprire il 25% del mercato italiano, risultato non disprezzabile, tenuto conto dello strapotere del colosso IBM col quale la Olivetti aveva cominciato a competere.

Nel complesso la divisione aveva raggiunto, sempre nel 64, la dimensione di 3000 persone, delle quali circa 500 impegnate nella ricerca e sviluppo. Il fatturato aveva superato i 14 miliardi; esso comprendeva però, per circa la metà, la distribuzione in Italia di prodotti della Bull francese, e solo per circa 2,5 miliardi calcolatori Elea. Il resto era costituito da una fatturatrice elettronica accoppiata alle macchine contabili prodotte ad Ivrea, che era stato il mio secondo importante progetto dopo il convertitore nastro- schede.

Purtroppo meno chiara era la situazione economica, per cui e’ molto dubbio che la divisione sia mai potuta arrivare al pareggio. Infatti molti costi, inclusi una parte di quelli di ricerca e sviluppo, venivano attribuiti ad Ivrea.

Ma la continuazione delle attività era illusoria. In realtà l’azienda dopo la morte di Pero era acefala, e le banche si predisponevano a chiedere agli azionisti il

rientro dai loro debiti. I soldi per alimentare gli investimenti in strutture commerciali, ricerca e sviluppo, costruzione di nuovi stabilimenti, mancavano, e la crisi economica ormai estesa a livello mondiale determinava un preoccupante rallentamento delle vendite.

Il momento della verità e della resa dei conti stava per arrivare.

Ivrea la bella dalle rosse torri, cittadella del potere.

Come ho già detto, sia per il progetto del convertitore nastro-schede, sia per quello della fatturatrice elettronica ( che erano tutti prodotti strettamente integrati con i progetti tradizionali dell’Olivetti ), avevo occasione di frequentare il mondo dei progettisti di Ivrea e non cessavo di meravigliarmi del clima esoterico che regnava in quella città.

Dell’Olivetti avevo conosciuto, prima delle frequentazioni eporediesi, i circoli più esterni o di più recente acquisizione, come quelli che gravitavano attorno al laboratorio elettronico, fatti di scienziati, fisici, ingegneri, strani personaggi classificabili come filosofi ( dedicati a concepire qualcosa che allora non era ancora nominabile e che sarebbe poi diventato il software ), architetti ( come Ettore Sottsass jr., che faceva i suoi primi esperimenti di industrial design ), letterati e poeti reclutati per descrivere e raccontare al pubblico in modo suadente le noiose e farraginose prestazioni e funzioni dei calcolatori, ma non avevo potuto immaginare quanto strano e singolare fosse il nucleo storico immerso nel profondo io dell’azienda ad Ivrea.

Già nel 57 avevo, per il mio lavoro, dovuto frequentare il cosiddetto Centro Studi, situato in una palazzina isolata, progettata dall’ architetto Vittoria, in prossimità della zona occupata dai nuovi stabilimenti con le grandi facciate di vetro, progettati dagli architetti Figini e Pollini. Adriano aveva, valendosi dei migliori architetti, realizzato una vera  e  propria  città della tecnologia                                           e della produzione, dove vivere e lavorare non aveva nulla di opprimente. All’interno di questi edifici erano stati raccolti dei gruppi di progettisti,     incaricati      di     realizzare     macchine     per     scrivere,     calcolatrici,      contabili, telescriventi, molte volte in competizione tra loro. Ma di questi progettisti nulla si sapeva al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori; e mentre i nomi degli architetti e dei designer facevano il giro del mondo, i nomi dei tecnici erano coperti dal più assoluto anonimato. Per capire le ragioni di questo mistero dovetti faticosamente ricostruire la storia dei più fortunati progetti realizzati dalla Olivetti nel dopoguerra. Capii che non si trattava di segretezza industriale, ma che la ragione era un’altra. In realtà anche per i progetti dei prodotti Adriano era andato alla ricerca di ingegneri brillanti e colti, così come aveva fatto per gli architetti e i designer, ma con quelli non era stato altrettanto fortunato.

Il problema era emerso quando nell’immediato dopoguerra la Olivetti tentò di sfondare nel campo delle calcolatrici meccaniche per allargare il catalogo dei prodotti, sostanzialmente limitato alle macchine per scrivere. Nel gruppo di progetto incaricato di progettare queste calcolatrici, alle dipendenze degli ingegneri e dei tecnici, lavorava un operaio, Natale Capellaro, incaricato di costruire i prototipi. Adriano seguiva da vicino il lavoro di questo gruppo, che aveva l’obiettivo ambizioso di rompere il monopolio di costruttori famosi, sopratutto americani, come Monroe, Friden, Marchant. Ma i risultati non erano soddisfacenti, le soluzioni proposte erano complicate, costose, poco affidabili. D’altra parte la Olivetti voleva puntare a un prodotto di massa e non solo a fare una macchina per scienziati.

Un giorno durante una visita, Adriano notò l’assenza di Capellaro e ne chiese le ragioni. La risposta, alquanto imbarazzata, fu che l’operaio aveva dovuto essere allontanato in quanto si era reso responsabile di gravi irregolarità, come la sottrazione di materiali dal laboratorio, l’utilizzo dei macchinari per lavori personali e così via. Adriano, stupito, chiamò Capellaro il quale ammise, sì, di costruire in laboratorio pezzi e gruppi e di portarseli a casa, ma questo succedeva perché egli non condivideva l’impostazione dell’ingegnere responsabile dell’ufficio progetti e comunque stava realizzando una macchina innovativa che si riprometteva di presentare quanto prima alla Olivetti. Adriano esaminò il progetto, ne capì il valore competitivo e assegnò a Capellaro due disegnatori e un ufficio. Nel giro di pochi mesi il progetto della prima Divisumma era pronto. Da questa prima macchina nacque la calcolatrice automatica scrivente Divisumma 24, che fu la vera causa dello straordinario successo e dell’espansione mondiale della Olivetti negli anni 50. Natale Capellaro da semplice operaio diventò direttore generale e ricevette pure la  laurea in ingegneria , honoris causa, dall’università’ di Bari.

Attorno a Capellaro si era raccolto un gruppo di progettisti, che non erano ne’ ingegneri ne’ laureati, molti avevano solo la licenza elementare, tutti però dotati di straordinaria genialità e creatività. Essi inventarono praticamente, al di fuori di qualsiasi circuito accademico, una nuova meccanica del tutto non convenzionale, molto diversa da quella che si insegna nei politecnici. Era una meccanica dei segnali deboli, non di forza, adatta a trasmettere e a manipolare la leggerezza della informazione. La sua materia prima per eccellenza era la semplicissima lamiera.

La mitologia del ” progettista inventore “, che sperimenta e crea un `nuovo prodotto con un suo gruppo di caccia e quindi lo presenta al Principe illuminato, come a un nuovo Mecenate, divenne determinante in Olivetti e alimentò certamente gran parte delle energie interne e delle risorse umane che ne forgiarono il successo. Però Adriano, mentre colmò di denaro e di potere questi progettisti-inventori, li tenne sempre confinati all’interno della fabbrica. E probabile che anche lui fosse condizionato da un pernicioso vizio che da sempre contrassegnò la cultura d’impresa in Italia, che fu quello di non apprezzare sufficientemente la competenza e la creatività tecnica, preferendo privilegiare altri valori, più facilmente comunicabili e condivisibili.

Ma all’interno della cittadella della tecnologia e della produzione costruita dall’Olivetti a Ivrea, il potere di questo gruppo era assoluto. I progettisti si sentivano gli artefici del successo mondiale dell’azienda ed erano profondamente convinti di avere in mano anche le chiavi segrete dei successi futuri. La tecnologia da essi posseduta in esclusiva, così esoterica ed eterodossa, della quale nulla si leggeva sui libri, poteva essere trasmessa soltanto attraverso un rapporto fiduciario, come tra gli iniziati di una setta religiosa . Tra i progettisti esisteva una solidarietà assoluta, che escludeva completamente, come un tradimento, qualsiasi mobilità. Naturalmente nel gruppo non c’era posto per gli ingegneri, specie se in odore di elettronica, ne’ per laureati di altra specie, a meno che non accettassero di svolgere il ruolo di corifei dell’ideologia tecnica dominante.

E’ facile immaginare come questo orgoglioso gruppo di potere guardasse all’esperimento della elettronica pisana. Forse l’elettronica avrebbe potuto essere accettata soltanto se ancillare rispetto alla dominante tecnologia meccanica, per utilizzazioni accessorie, ben chiaramente di importanza secondaria. D’altra parte questa posizione  nei  primi anni  60 era  oggettivamente corretta.       Nessuno intravedeva allora la possibilità, a breve termine, di un ingresso dominante dell’elettronica  nei prodotti dell’ufficio, salvo che per qualche marginale applicazione di alto costo. Per giunta negli uffici di Ivrea erano in preparazione prodotti meccanici di alta sofisticazione a tecnologia meccanica, sia nel campo delle calcolatrici, come in quello delle macchine contabili.

La posizione di forza dei progettisti-inventori era condivisa da un’altra specie umana molto importante in Olivetti, anch’essa a stretta circolazione entro le mura del palazzo. Si trattava dei contabili-amministrativi, ossia di coloro che sapevano far  di conto. Essi erano in una posizione unica per apprezzare una situazione di redditività da sogno, dovuta all’incredibile rapporto prezzo-costo dei prodotti usciti dal magico tavolo  da disegno di Capellaro e dei suoi seguaci.

A Ivrea quindi, in questi ambienti, che erano poi quelli che contavano, la situazione non era vista con grande preoccupazione. Al più si pensava ad un malessere passeggero, che sarebbe guarito una volta superata la congiuntura negativa dell’economia ed eliminati gli sperperi dovuti ad eccesso di megalomania.

5 Alla ricerca del nuovo principe.

La Olivetti però alla fine del 1963, dopo la morte di Pero, era senza capo e i membri della famiglia non erano in grado di esprimere un nuovo presidente, ne’ tra i dirigenti dell’azienda, ne’ tanto meno tra loro stessi. Qualunque scelta interna avrebbe alterato i delicatissimi equilibri di potere. Nacque così la candidatura di Bruno Visentini, vicepresidente dell’IRI, ma sopratutto con fama di oculato e saggio amministratore, anche se la sua competenza professionale era quella di esperto di problemi fiscali.

Accettato l’incarico, Visentini si mise in contatto coi soliti centri di potere dai quali, per una legge immutabile da decenni, sembrava dipendere qualunque cambiamento di assetto della finanza in Italia: cioè, Mediobanca, Fiat, e poi IMI, Pirelli e altri. Ne nacquero, da una parte, accese polemiche alimentate da alcuni politici come Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti, socialisti, timorosi che si tramasse una manovra di arrembaggio alla Olivetti da parte della Fiat e di altri privati ( magari con l’utilizzazione surrettizia di denaro pubblico ), dall’altra, molto più discretamente si venne configurando la costituzione di un gruppo di intervento per il salvataggio della Olivetti.

Come gli eventi successivi dimostreranno, in realtà l’intervento della Fiat non fu motivato dall’obiettivo di controllare la Olivetti, ma piuttosto dal desiderio, più ideologico, di mettere in riga un diverso. Infatti la prescrizione data da Valletta, ufficiosamente ma in modo imperativo, era sostanzialmente quella di togliersi dalla testa insane manie e di ricondurre la gestione entro i binari della buona tradizione; il riferimento alla elettronica era abbastanza evidente.

Non e’ mai stato del tutto chiaro perché Visentini, dopo aver assunto l’incarico, diede una rappresentazione della situazione finanziaria dell’Olivetti più critica di quella che era in realtà. Certamente le operazioni dell’elettronica, ma sopratutto l’acquisizione della Underwood, avevano quasi completamente prosciugato le riserve, però la crisi era sopratutto un problema degli azionisti, che si erano fortemente indebitati con le banche, più che dell’azienda. Ma, come scrisse la rivista Fortune, ” la chiusa comunità finanziaria italiana istintivamente associò famiglia e società “.

Per quanto concerneva l’azienda, il problema era sopratutto quello di trovare una guida sicura, e di ricostruire un azionariato in grado di sostenere gli investimenti prevedibili per gli sviluppi futuri. Certamente la drammatizzazione della situazione finanziaria contingente favoriva la presa di potere del gruppo di intervento.

Comunque   nel   maggio del  1964       l’assemblea degli azionisti decretava l’ingresso dei nuovi soci, Fiat, IMI, Mediobanca, Pirelli, Centrale, ai quali la famiglia Olivetti aveva ceduto il 35% delle azioni possedute. In successive riunioni del nuovo consiglio di  amministrazione   vennero  nominati rispettivamente presidente  e amministratore delegato, Bruno Visentini e Aurelio Peccei, quest’ultimo di provenienza Fiat. Per quanto concerne gli aspetti finanziari, i nuovi azionisti se la cavarono piuttosto vantaggiosamente. Le azioni Olivetti rilevate dalla famiglia vennero pagate 1000 lire, contro un valore di borsa di circa il doppio; e la linea di credito aperta a favore della Olivetti fu di appena 20 miliardi di lire, a un tasso dell’8%. Di questa linea di credito l’azienda utilizzò solo una piccola parte e per un breve periodo, a conferma della sua sostanziale sanità. Si può quindi ben dire, come alcuni osservatori stranieri, che mai salvatori ottennero così tanto rischiando così poco !

Quattro anni erano trascorsi dalla morte di Adriano e sembrava che fosse passato un secolo ! Il nuovo vertice era ormai installato e difficilmente si sarebbe potuto immaginare un cambiamento più drastico: un consiglio di amministrazione espressione del più tradizionale establishment industriale italiano e uno spaesato dirigente Fiat alla guida dell’orgoglioso gruppo di Ivrea ! Sette anni erano trascorsi da quando, lasciata la Fiat, avevo raggiunto il laboratorio di Pisa, e ora sembrava giunto il tempo di archiviare ogni sogno di gloria

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